Calcio e pizza: sono le (uniche) polemiche a sfondo economico ancora in grado di scuotere le sonnolenti coscienze degli italiani, almeno stando a telegiornali e televisioni che attorno ai guasti veri o presunti del pallone e del piatto unico napoletano (ed italiano) per eccellenza stanno imbastendo da qualche giorno un circo mediatico che neppure l’ennesima bocciatura giunta dal Fmi (che in realtà secondo alcuni osservatori offre una debole sponda al governo Renzi “prevedendo”, o forse sarebbe più giusto scrivere “auspicando” una ripresina-ina-ina per l’anno venturo. La luce è sempre in fondo al tunnel da almeno tre anni in qua, notate?) riesce a guadagnarsi. Ma quali sono i risvolti economici concreti delle due vicende?
Iniziamo dal calcio: l’ex campionato “più bello del mondo”, rimasto orfano dei denari che lo fecero grande negli anni Ottanta a causa del declino generazionale ed economico degli imprenditori che gravitano attorno a tale mondo (da cui si tengono ben lontani veri “re di denari” come Francesco Gaetano Caltagirone, Roberto del Vecchio o Michele Ferrero, per quanto periodicamente circolino voci di un loro interesse a rilevare questa o quella squadra di Serie A) sta perdendo colpi da tempo in termini non solo sportivi ma anche meramente economici in Europa. Secondo la Deloitte Football Money League (classifica che riunisce i trenta club europei più ricchi, con ricavi superiori ai 100 milioni di euro l’anno) le sei squadre italiane in classifica (Juventus, Milan, Inter, Roma, Napoli e Lazio, nell’ordine) nel 2012/2013 hanno registrato un fatturato complessivo di 1.051,7 milioni di euro.
Niente male, ma alla fine stiamo parlando di poco più dello 0,06% del Pil italiano (che vale attorno ai 1.650-1.660 miliardi di euro l’anno secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale) e anche facendo conto che l’intero mondo del pallone professionistico (Serie A, Serie B e Serie C) valga 20 volte tanto, stiamo forse parlando di poco più dell’uno per cento del Prodotto interno lordo italiano. Visto che il “circenses” vale così poco rispetto allo spazio spropositato che gli dedicano i media tradizionali, quanto vale il “panem”, anzi la pizza? Questo è sicuramente un calcolo più aleatorio da fare, ma qualcuno (la Coldiretti) ci ha provato qualche mese fa, quando a giugno la ricetta della “Margherita” ha festeggiato i suo 125 anni. Attorno alla pizza in Italia “girano” 10 miliardi di euro l’anno e all’estero le cose vanno ancora meglio (o peggio, a seconda dei gusti).
Sempre per Coldiretti se in Italia si consumano in media 6,7 chili di pizza a testa ogni anno (il che significa che tutti noi italiani, compresi bambini e anziani, uomini o donne, ci mangiamo sempre in media almeno una pizza a testa a settimana) negli Usa se ne consumerebbero 13 chili. Uso il condizionale perché se siete stati non dico negli States ma anche solo in altre regioni italiane che non siano la Campania (vorrei dire in altre città che non siano Napoli ma rischierei di essere accusato di “razzismo gastronomico” e mi spiacerebbe) non sempre la pizza “Margherita” o meno che sia è tale. Il più delle volte è una focaccia, qualche volta con ingredienti che “non c’azzeccano” nulla con la ricetta originale (una prece: in Alessandria, mia città natale, ma anche in molte altre città del Nord Italia la Margherita viene proposta con abbondante spolverata d’origano…) e molto, troppo spesso, viene servita utilizzando una base precotta e surgelata.
Niente di male, sia chiaro, ma la fettona di “pizza americana” alta tre dita non è la pizza margherita, né lo è la versione surgelata che trovate nei supermercati, per quanto sia prodotta utilizzando il più delle volte ingredienti originali (campani), studiati e raffinati dai laboratori chimici dei maggiori produttori per adattarsi alle esigenze (ad esempio per squagliarsi in pochi secondi nella fase di cottura nei forni elettrici e potersi poi rapidamente congelare senza troppo perdere di sapore nella fase di surgelamento) e va detto a chiare lettere. Sia come sia, la pizza rappresenta oltre mezzo punto percentuale del Pil italiano. Se il calcio è molto fumo e poco sostanza, la pizza inizia dunque ad essere sostanziosa anche economicamente, tanto più che dà da lavorare a 250mila persone impiegate in 50mila pizzerie in tutta la penisola (e a molte altre migliaia che emigrano per lavorare in migliaia di locali all’estero).
Morale della favola: smettiamola di farci prendere in giro da una classe dirigente politica, imprenditoriale e, purtroppo, mediatica, che non è degna di un (ex) grande paese occidentale come l’Italia e che non riesce a farci uscire da questa fase di prolungata recessione, anzi di vera e propria decadenza. Nelle prossime settimane verrà varata una Legge di Stabilità che si preannuncia dolorosa e problematica, che dovrà piacere alla tecnocrazia europea (quella stessa che però da anni non riesce a far ripartire l’economia del vecchio continente come sempre più evidente dai dati di queste ultime settimane) e accontentare se non tutti almeno la base elettorale del premier e del suo governo.
Non cadiamo nella trappola di distrarci pensando a panem et circenses e se proprio vogliamo caderci, abbiamo almeno la consapevolezza che i prodotti tipici italiani (campani, laziali, trentini, lombardi, piemontesi, siculi o calabri che siano e chi più ne ha più ne metta) si difendono anzitutto pretendendo il rispetto di poche e chiare regole valide per tutti: in gradienti genuini, trattati nel modo corretto, sapori autentici, nessuno spazio per le imitazioni di bassa qualità che in Italia e all'estero si vogliono spacciare per “pari grado” coi nostri migliori prodotti tipici. Perché se l’Italia ha una possibilità di ripresa essa passa per un nuovo e più consapevole ruolo in ambito enogastronomico, turistico e dell’accoglienza. Purché non si rovini con le proprie mani.