Il Milan? Per tifosi e proprietario non ha prezzo e lo si può capire, perché in realtà pur dicendo “prezzo” ci si riferisce in quel caso al “valore”, concetto ben differente che per Adam Smith, padre dell’economia moderna, poteva essere definito il “prezzo reale di ogni cosa”, “ciò che ogni cosa costa realmente a chi ha bisogno di procurarsela” inteso come “la pena e il disturbo di procurarsela”. Il valore, insomma, è soggettivo, dipende fondamentalmente dai benefici che l’acquirente conta di ottenere acquisendo quello specifico bene o servizio, mentre il prezzo di un bene o servizio è (o dovrebbe essere) un qualcosa di oggettivo e stimabile indipendentemente dall’acquirente (o dal venditore) come valore economico, ossia quel “valore” che tiene presente solo una parte dei potenziali benefici per l’acquirente (e per il venditore), ossia appunto quelli economici.
Quanto sopra esposto può in parte spiegare il perché della differenza macroscopica esistente tra il prezzo/valore di beni come le squadre calcistiche (o di altri sport) cedute privatamente rispetto ai prezzi di mercato dei club quotati in borsa, solitamente inferiore e non di poco. Il Milan in questi mesi è stato valutato attorno al miliardo di euro: quanto pagherà per il 48% il broker tailandese Bee Taechaubol in realtà non viene ancora dichiarato dalla nota ufficiale che parla di otto settimane di trattative in esclusiva per poter giungere a un accordo definitivo che verrà “dettagliatamente esaminato” (dunque anche per quel che riguarda il controvalore finale della cessione e le eventuali opzioni per l'acquisto di successive quote nel tempo) e che comunque prevederà che per il momento Fininvest resti proprietaria della quota di maggioranza e Silvio Berlusconi presidente dell’Ac Milan.
Tuttavia anche se manca l'indicazione ufficiale, la stampa italiana ha dato per scontato che il Milan non possa essere ceduto che sulla base di una valutazione di un miliardo, che per quanto se ne sa è la valutazione di una sola delle due parti (il venditore) e che l’altra parte (l’acquirente) dovrà in qualche modo giustificare anche economicamente sulla base, per citare ancora la nota ufficiale, di una futura “valorizzazione e commercializzazione del brand Milan in particolare nei paesi asiatici, al fine di ottenere un forte impulso dei ricavi” (e si suppone degli utili societari) per aver poi “quelle risorse finanziarie indispensabili per riportare” il Milan “a competere con i principali club del calcio mondiale”. Un po’ come la Juventus, insomma, che però essendo quotata in borsa un prezzo, inteso come livello di equilibrio della domanda e offerta dei suoi titoli, ce l’ha già ed è un prezzo che capitalizza il club bianconero 300 milioni di euro.
Come dire che Mr Bee avrebbe (molto teoricamente) potuto comprarsi il club bianconero, vincitore degli ultimi quattro campionati italiani e finalista quest’anno di Champions (dove è uscito sconfitto dal Barcellona) e già che c’era anche la As Roma, che in borsa capitalizza 209 milioni di euro, per la cifra che dovrebbe sborsare, milione più milione meno, per comprarsi la quota di minoranza del “Diavolo”. Se poi avesse aggiunto altri 45 milioni avrebbe potuto portarsi a casa anche la Lazio e con scarsi 550 milioni avrebbe messo le mani sulle prime tre classificate dell’ultimo campionato italiano. Va bene una differenza di prezzo e valore, ma qualcosa non torna: o i prezzi di borsa sono ampiamente sottovalutati, ed è possibile dato che la proprietà delle squadre non è minimamente contendibile, o Mr Bee siglerà un accordo contenente dei covenant che gli garantiscano un ritorno economico (o il futuro acquisto a scadenza di una ulteriore quota che lo porti in maggioranza) o la Fininvest è riuscita in un’impresa commerciale che ha dell’incredibile, facendo accettare una valutazione del bene ceduto multipla del valore reale.
Ma poi qualcuno si è mai chiesto come guadagnino le squadre sportive, quelle di calcio in particolare? Partiamo dai ricavi: questi sono legati tipicamente a tre fonti (stadio, attività commerciali o merchandising che dir si voglia e diritti televisivi) le quali a loro volta dipendono dal numero di tifosi della squadra e dalla competizione a cui partecipa. Maggiori investimenti (sui quali ovviamente pesa l’incertezza sulle prestazioni sportive dei singoli calciatori acquistati dalla squadra) significano maggiori possibilità di ottenere migliori risultati sportivi in grado a loro volta di fidelizzare nuovi tifosi e aumentare i ricavi commerciali (e i diritti televisivi, anche solo per il fatto di riuscire ad essere ammessi a competizioni internazionali come la Champions). Se questa politica viene eseguita correttamente dovrebbe poi tradursi in un equilibrio di bilancio in grado di generare non solo soddisfazione per i tifosi ma anche profitto per le società sportive professioniste.
La rivista Forbes da alcuni anni ha elaborato un modello che tiene conto di tutti questi fattori stilando una rich list dei più ricchi club calcistici mondiali. Ebbene, secondo gli ultimi valori, aggiornati a fine maggio, il Real Madrid varrebbe 3,263 miliardi di dollari (-5% rispetto allo scorso anno), il Barcellona sarebbe immediatamente alle spalle a 3,163 miliardi (-1%) col Manchester United (3,104 miliardi, +10%). Più staccati Bayern (2,347 miliardi, +27%), Manchester City (1,375 miliardi, +59%), Chelsea (1,37 miliardi, +58%), Arsenal (1,307 miliardi, -2%) e Liverpool (1,307 miliardi, -2%). Juventus e Milan sono rispettivamente al nono e decimo posto in classifica, valutate da Forbes 837 milioni il club bianconero (-2%) e 775 milioni il diavolo rossonero (-10%).
Certamente la classifica di Forbes basandosi su dati storici come il fatturato (per il Real Madrid pari a 746 milioni di dollari, mentre la Juve ne segna 379 e il Milan 339), l’Ebitda, ossia l’utile operativo (il Real Madrid registra 170 milioni di dollari, la Juve 50, il Milan 54) e il rapporto debiti/valore (inclusivo dei debiti per gli stadi di proprietà dei club, per il Real Madrid pari a 4 volte, per la Juventus a 9 volte, per il Milan addirittura a 44 volte, pur se i rossoneri ancora non hanno uno stadio proprio) e per questo offre una fotografia del passato, sia pure prossimo, e non del futuro. E certamente non tiene conto delle “meravigliose e progressive sorti” che un accordo come quello tra Fininvest e Bee Taechaubol potrebbe portare. Ciò non di meno il macroscopico allineamento tra i valori di cui parla la stampa italiana e quelli attribuiti dai mercati azionari ai titoli calcistici italiani quotati è evidente, così come è evidente la discrasia tra la valutazione “da amatori” che avrebbe ottenuto Fininvest e quella che le attribuisce Forbes (in linea se non inferiore a quella della Juventus, certamente non più che tripla).
Così la domanda vera è: sono stati abilissimi negoziatori gli uomini di Silvio Berlusconi o sono i tifosi italiani ad essere considerati dei bambini neppure in grado di fare due conti elementari o di documentarsi? O forse del tutto non interessati a farlo: siamo la repubblica del pallone, mica dell’economia. E si vede, purtroppo.