La stagione delle trimestrali deve ancora concludersi ma da quando si è aperta l'8 luglio scorso (coi risultati di Alcoa), il 92% delle società quotate in Europa e il 98% di quelle negli Stati Uniti che dovevano diffondere i dati del secondo trimestre entro l’estate li ha già resi noti. E’ dunque possibile fare il punto della situazione, sulla base di un report riassuntivo redatto oggi dagli analisti di Societe Generale dal quale emergono alcuni numeri interessanti. Anzitutto il 59% delle società europee ha centrato o superato le attese e negli Usa le cose sono andate ancora meglio, con un 84% di risultati in linea o sopra le attese del mercato. Il dato appare in linea con le medie storiche degli ultimi dieci anni (che hanno sempre visto tra il 60% e il 70% delle società quotate rispettare o battere le attese in Europa e tra l’80% e l’85% negli Usa). Il che non vuol dire, ovviamente, che la crisi sia un’invenzione dei media (magari lo fosse), semplicemente che le grandi e medie imprese sia in Europa sia negli Stati Uniti sono riuscite a fare leggermente meglio di quanto avessero preannunciato e di quanto il mercato si attendesse, trimestre dopo trimestre.
Confrontando le attese sull’andamento degli utili da inizio anno ad oggi, si nota come in Europa le previsioni, complici dati macro sempre più deludenti, si siano nel frattempo più che dimezzate, passando da un’attesa media del 13% a gennaio ad una del 6% attuale (era ancora pari all’8% ai primi di luglio). La maggiore prudenza, o forse disillusione, per i risultati dell’anno in corso non si riflette ancor in una revisione al ribasso delle attese per il prossimo biennio: per il 2015 gli utili sono anzi visti in crescita del 14% (contro il 12% messo in conto a inizio anno), per il 2016 ad un più prudente 10% (ma non si andava oltre una stima media di crescita degli utili dell’8% ancora la scorsa primavera). Analogamente negli Usa le previsioni di crescita degli utili aziendali sono state tagliate mediamente del 2% da inizio anno ad oggi, passando dal 10% all’8%. Un dato che comunque conferma come la ripresa del vecchio continente resti in alto mare e come si continuino a fare più soldi negli Usa che in Europa, come sanno bene gruppi come Fiat, Luxottica o Lottomatica, soprattutto a causa del differente andamento della domanda interna (tornata a crescere negli Usa, ancora in crisi nel vecchio continente).
La luce resta “in fondo al tunnel”, insomma, anche se per il prossimo biennio gli analisti sembrano contare almeno in un temporaneo recupero del terreno perso dall’Europa, visto che si attendono una crescita degli utili delle aziende statunitensi “solo” del 12% circa l’anno venturo e dell’11% nel 2016 (ma a differenza che per le aziende europee le previsioni appaiono stabili o in lieve miglioramento rispetto a inizio anno). Tutta colpa dell’eccessivo rigore europeo? Probabilmente sì, ma non tutti i settori hanno registrato lo stesso andamento. Ad esempio mentre tutti i settori in cui sono classificati i titoli europei hanno subito una limatura delle attese di crescita degli utili, metà dei settori statunitensi ha visto rialzate le stime dall’avvio della stagione delle trimestrali ad oggi grazie alle sorprese positive registrate nei conti di “Corporate America”. Sia negli Usa sia in Europa, poi, le previsioni per gli utili del settore bancario sono state mediamente tagliate di un 5% a causa dei costi legati alle cause aperte contro numerose grandi banche in questi anni giunte nella fase finale (con l’irrogazione di maxi multe o una serie di transazioni extragiudiziarie altrettanto pesanti per gli istituti coinvolti).
Ma chi riesce nonostante la crisi a guadagnare più dell’anno passato? In Europa la crescita degli utili per azione più forte è stata osservata nel settore dei produttori informatici di hardware (+202,9%) e di semiconduttori (+37,8%) e nel comparto bancario (+40,9%), ma sono andati bene anche i servizi petroliferi e i materiali per l’edilizia (+20% circa in entrambi i comparti). Negli States la ripresa del mercato immobiliare (per quanto riguarda le costruzioni, meno per quanto riguarda le vendite, che di recente hanno mostrato segnali di rallentamento) ha portato le aziende del settore delle costruzioni a più che raddoppiare gli utili (+110%) ma sono andati bene anche i produttori di semiconduttori (+38,4%) e i materiali per l’edilizia (+32,6%). Notte fonda, invece, per telecomunicazioni (-22,7%) e utilities (-14,2%) in Europa e per media (-30,8%) e società immobiliari (-21,6%) negli States.
I dati si prestano ad almeno un paio di conclusioni: la prima è che le aziende dopo anni di crisi stanno tornando ad assumere e investire con molta prudenza specialmente in Europa (dove infatti la disoccupazione resta molto più alta che negli Usa) e semmai hanno approfittato/stanno ancora approfittando della crisi per ristrutturarsi e migliorare la propria produttività, un processo che in Italia è probabilmente in ritardo rispetto ad altri paesi e dunque destinato a protrarsi ancora per qualche tempo. Sarà difficile, insomma, vedere una crescita dell’occupazione che anche solo proceda di pari passo col recupero degli utili, più verosimilmente le aziende vorranno ricostruire margini e flussi di cassa che le crisi di questi ultimi anni avevano bruciato, nonostante le eventuali “riforme strutturali” che si dovessero varare. Una situazione che potrebbe facilmente portare ad una maggiore tensione tra stati e all’interno di ciascun singolo stato perché ad un certo punto si vedrà che alcune classi di lavoratori (in base al settore ma anche a variabili come l'età anagrafica o la localizzazione geografic) avranno sempre meno diritti (e compensi) a fronte della stessa (o maggiore) quantità di lavoro richiesto in cambio, per di più in condizioni sempre più precarie.
La seconda conclusione è che le banche lentamente stanno a loro volta ristrutturandosi e rafforzandosi dopo la pesante crisi del 2008-2009 (seguita in Europa da quella dei crediti sovrani del 2010-2011), anche in questo caso con l'Italia che sembra faticare a tenere il passo di quanto sta accadendo nel resto d'Europa (oltre che degli Usa). Banche meno fragili significa in teoria banche più disponibili a concedere nuovi prestiti alle aziende e fare da volano a una ripresa che resta comunque lontana tra i 6 e i 18 mesi ben che vada. Prima di allora si dovranno alleggerire, secondo i calcoli dell’agenzia Bloomberg, di almeno 1.720 miliardi di crediti “a rischio” (o altri asset non più strategici) che banche come Barclays, Unicredit, Intesa Sanpaolo e Credit Suisse hanno già stoccato, in parte, in apposite “bad bank” interne, un valore in crescita del 65% in rispetto a fine 2013. Asset che stanno suscitando il crescente interesse di operatori specializzati come fondi di venture capital e di private equità, sempre più alla ricerca di rendimenti elevati a fronte di tassi sui titoli di stato che restano ai minimi storici (per quanto la deflazione stia facendo risalire, o comunque rallenti la discesa, dei tassi reali dei paesi del Sud Europa come l’Italia).
La ricerca di rendimenti per il rischio adeguati sta portando gli investitori ad aumentare il prezzo che offrono per rilevare tali asset, accettando di fatto di limitare il proprio guadagno ad un 10% prospettico, contro il 20% atteso un paio d’anni or sono (quando però le banche erano molto più restie a cedere crediti a rischio e partecipazioni non più strategiche proprio a causa di valutazioni ritenute troppo modeste). A questo punto sarà importante vedere che risultati verranno dall’Asset quality review che la Bce sta ultimando in queste settimane e che dovrebbero essere resi noti a ottobre, mese che dovrebbe vedere la Federal Reserve americana interrompere il proprio programma di quantitative easing (acquisto di bond sul mercato) e che potrebbe vedere la Bce lanciare le sue Tltro (offerte “condizionate” di liquidità a lungo termine a basso costo) e forse anche un vero e proprio quantitative easing di cui si parla da tempo e che lo stesso Mario Draghi nel fine settimana è parso preannunciare "se necessario".
Basterà la “staffetta” tra Federal Reserve e Bce a rilanciare l’economia del vecchio continente grazie ad un euro meno forte di quello attuale, qualche frazione di punto percentuale di inflazione in più (con cui far calare il costo reale del debito di stati come l’Italia, rendendolo più sopportabile) e un credito potenzialmente abbondante e a basso costo (almeno per le banche)? C’è chi ne dubita almeno quanto che la ripresa possa tradursi, oltre che in un miglioramento della redditività delle imprese, in un deciso rilancio del mercato del lavoro. Eppure se non si dovesse attivare almeno questo circolo virtuoso, molte altre speranze non se ne vedono.