Enrico Letta a parole prosegue dritto per la sua strada e annuncia il via libera a un piano di privatizzazioni (di cui si parla dalla scorsa estate) da cui il governo italiano si aspetta di ricavare 10-12 miliardi di euro utili ad abbattere (della metà) il debito pubblico, che intanto a fine settembre è risalito a 2.068,565 miliardi di euro secondo la Banca d’Italia (come dire che con le privatizzazioni se fossero fatte istantaneamente si ridurrebbe il debito di poco più di un quarto di punto percentuale), e a rassicurare la Commissione Ue che negli scorsi giorni aveva “bacchettato” tra gli altri anche l’Italia escludendo per il Belpaese la possibilità di utilizzare la clausola d’investimento (che libererebbe comunque risorse limitate, pari a 3 miliardi di euro, meno dello 0,15% del debito pubblico ovvero poco più dello 0,19% del Pil secondo le ultime stime).
Come si arriva alla somma di 10 – 12 miliardi di euro, di cui la metà servirebbe a ricapitalizzare Cdp? Letta non entra nei dettagli, ma annuncia di voler cedere la quota di controllo (60%) di Sace e di Grandi Stazioni, quote non di maggioranza (40%) di Enav, Stm, Fincantieri, più una quota attorno al 40% di Cdp Reti e del gasdotto Tag. A queste privatizzazioni vere e proprie si affiancherebbe la cessione di un pacchetto del 3% di Eni (affiancato a un’operazione di riacquisto di azioni proprie lanciata dalla stessa Eni in modo che la partecipazione pubblica, detenuta tramite Cdp, non scenda sotto il 30% del capitale, finora soglia sopra la quale scatta l’obbligo di Opa). Sono calcoli corretti e soprattutto l’operazione ha un senso?
Se il senso “politico” sembra essere quello, come detto, di dare un segnale di buona volontà all’Europa, il senso pratico dell’operazione potrebbe consistere (il condizionale resta purtroppo d’obbligo) in un efficientamento che si potrebbe registrare in quelle aziende dove i soci privati siano in grado di incidere sulla gestione aziendale e non si limitino a rivestire il ruolo di semplici “rentier” (come già capitato in troppi casi con le privatizzazioni degli anni Novanta). Cosa che peraltro presuppone accanto e dopo il processo di privatizzazione un processo di apertura dei mercati alla concorrenza, unico rimedio per evitare il sistematico sfruttamento di residue rendite di posizione che non sempre, peraltro, sono in grado di garantire la sopravvivenza di un’azienda per quanto florida possa essere la posizione di partenza (ogni riferimento a Telecom Italia e ancor più ad Alitalia è puramente voluto).
Quanto all’aspetto economico, è difficile stimare ora il valore di aziende non quotate come Sace, Grandi Stazioni, Enav o Fincantieri, per non dire Cdp Reti e Tag, mentre alle quotazioni attuali il 3% di Eni (che oggi perde poco più di mezzo punto in borsa) può valere attorno a 1,9 miliardi di euro, dato che ne capitalizza al momento 65.488 circa. Il buy-back previsto da Letta, facendo risalire dal 30% al 33% la partecipazione in mano a Cdp, dovrebbe poi neutralizzare il calo dei dividendi futuri, dividendi che attualmente equivalgono a un rendimento del 5,9%-6%, un valore ben superiore sia al costo medio dei titoli di stato decennali (4,12% oggi) sia al Rendistato (ossia al rendimento medio di un paniere ponderato di titoli di stato) che Banca d’Italia calcola a fine ottobre valesse il 3,261%. Detto fuori dai denti, ancora una volta la montagna (mediatica) sembra dover generare un topolino (in termini economici), ma tant’è: questo passa questo governo. E di soluzioni alternative, personalmente, non mi pare di vederne molte in giro al momento.