Popolare di Bari, un bilancio da nascondere: ecco perché il governo l’ha commissariata
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Ma quale trama finanziaria degna di Wall Street? Dietro la fretta con cui il Governo ha gestito la crisi della Banca Popolare di Bari c’è una ragione strategica: impedire la presentazione del bilancio di fine anno – che l’istituto avrebbe dovuto produrre – e da cui sarebbe emerso l’enorme buco causato da oltre 2 miliardi di euro di crediti deteriorati. Un dissesto che, figurando formalmente, avrebbe fatto scattare il meccanismo di bail-in.
Lo strumento, introdotto nel 2015, permette alla Banca d’Italia di salvare banche in crisi chiedendo però ad azionisti e creditori di partecipare all’assorbimento delle perdite, entro certi limiti e condizioni. Con il commissariamento e la ricapitalizzazione “statale”, invece, i risparmiatori dovrebbero sopportare conseguenze meno pesanti.
A confermarlo è Antonio Pinto, avvocato che per conto di Confconsumatori sta difendendo una parte dei piccoli azionisti dell’istituto di credito pugliese. «Le opzioni per salvare Bpb erano poche – spiega Pinto a Fanpage.it – O si ricapitalizzava la banca entro il 31 dicembre oppure, con la presentazione del bilancio e l’emersione delle perdita nel documento, sarebbe scattata la dichiarazione di bail-in. Diciamo che con la ricapitalizzazione si evitano una serie di conseguenze più negative. Gli obbligazionisti in questo caso possono stare tranquilli. Per gli azionisti è diverso, ma in ogni caso con il bail-in avrebbero visto ridurre drasticamente le possibilità di riottenere i risparmi investiti».
Ecco quindi spiegata la necessità di emanare un decreto con un piano di risanamento nell’arco di un weekend e rigorosamente entro fine dicembre. Ecco, forse, la ragione dell’ottimismo dietro le parole con cui il management di Bpb spiega ai dipendenti – nell’audio pubblicato in esclusiva da Fanpage.it – che il salvataggio è sicuro. Nel piano varato dal Governo sono previsti 900 milioni di euro per il risanamento. Soldi che, precisa Pinto, «non è pensabile dare in mano a una governance ritenuta non affidabile».
Lo Stato ha quindi garantito il suo intervento solo una volta tolto di mezzo il vecchio management, colpevole di una gestione allegra delle risorse e degli investimenti bancari (come confermano anche le risultanze delle ispezioni di vigilanza della Banca d’Italia. Del resto, nemmeno la trasformazione da banca cooperativa a società per azioni – e quindi la possibilità di recuperare direttamente sul mercato le risorse per ripianare il dissesto e mai pienamente attuata da Bpb – avrebbe giocato una differenza nella tutela degli azionisti.
«In realtà per i risparmiatori il rischio è identico, a prescindere dalla forma giuridica della banca, perché dipende dall’erosione dei capitale – continua Pinto – L’iperdiluizione degli azionisti ci sarebbe stata in ogni caso. Ma è come se noi avessimo giocato una partita in due tempi. Il primo, questo weekend, ha visto la sostituzione della governance e la messa in sicurezza del capitale. Diversamente ci sarebbe stato il bail-in con azzeramento degli azionisti. Adesso invece si apre tutto il secondo tempo che consiste nel trovare le migliori soluzioni per tutelare chi ha investito».
E la soluzione parte dal ridare alla banca una veste presentabile, fatta di affidabilità che il mercato pesa e riflette sul prezzo delle azioni. Già nella quotazione sul mercato secondario delle azioni di Bpb erano emerse tutte le fragilità dell’Istituto. «Non è la quotazione che ha fatto crollare il valore delle azioni, semplicemente quella quotazione ha disvelato il vero prezzo, quello congruo», spiega Pinto che in veste di difensore dei piccoli azionisti e risparmiatori lancia un appello: «Il primo segno di discontinuità che ci attendiamo è che da oggi la banca paghi tutte le decisioni di condanna subite dall’Arbitro per le Controversie Finanziarie, invece che impugnarle a fini dilatori come ha fatto sino ad oggi».