L’Italia che piace ha un nome e un cognome eccellente come Pomellato o Richard Ginori. Due storie diverse, un unico acquirente, la francese Kering (nuova denominazione del gruppo Ppr di Henry-Francois Pinault), che di italiano ha già da tempo in portafoglio marchi come Gucci (a cui andrà, salvo colpi di scena, la manifattura ceramica toscana rilevata dal fallimento per 13 milioni di euro e la promessa di reintegrare da subito 235 lavoratori su 305 e garantendo ai restanti il proseguimento della cassa integrazione), Bottega Veneta, Brioni e Sergio Rossi e che ieri sera, a notte fonda (“attorno a mezzanotte” fa sapere in conferenza stampa l’amministratore dei Pomellato, Andrea Morante), è riuscita a siglare l’accordo per rilevare “una quota di maggioranza” da Ra.Mo. Spa (holding che raggruppa le quote del fondatore, Pino Rabolini, e dello stesso Morante, in tutto l’81% del capitale).
L’Italia che piace è un’Italia che vuoi per carenza di mezzi, vuoi per problemi successori (il figlio di Rabolini non ha mai espresso interesse a entrare in azienda), spesse volte non riesce a crescere oltre una certa dimensione nonostante l’eccellenza delle sue produzioni e delle sue intuizioni imprenditoriali (era il 1966 quando Pierre Cardin lanciava il pret-a-porter nella moda, l’anno successivo l’orafo Rabolini decideva di provare a fare la stessa cosa nella gioielleria, bissando poi il successo del marchio principale col lancio nel 1995 di Dodo, la linea giovane del gruppo), ma che trova continuamente estimatori pronti a rilevarne le eccellenze per farle ulteriormente conoscere in tutto il mondo, che si tratti di gruppi concorrenti come Kering, Lvmh o Shig, piuttosto che investitori finanziari americani, europei, arabi o asiatici.
Questa Italia riesce persino là dove i governi non riescono, a varare alleanze e integrazioni internazionali, sfruttando i punti di forza più che soffermandosi su quelli di debolezza, accettando nuove sfide ogni volta sia a livello imprenditoriale sia di management. Colpisce come quasi sempre si tratti di gruppi in grado di essere ai vertici del proprio settore a livello internazionale (Pomellato è il quinto marchio europeo della gioielleria, nei primi dieci al mondo), pur restando di dimensioni contenute, tanto da far parlare negli scorsi anni di “multinazionali tascabili”. Tutto l’opposto di certi complessi, eredità dell’economia “pesante” del ventesimo secolo, come Fiat, Pirelli & C., Impregilo (piuttosto che, in ambito finanziario, Generali, Intesa Sanpaolo o UniCredit solo per fare qualche esempio) che a fronte di dimensioni assolutamente rilevanti sul piano nazionale non sempre sono riusciti a emergere o a confermarsi costantemente ai vertici del proprio settore a livello mondiale.
Le due acquisizioni del gruppo Kering sono dunque importanti e salutari, perché dimostrano (come già visto col passaggio di Ducati al gruppo Audi-Volkswagen, del resto) come sia possibile per il “Belpaese” attrarre nuovi investimenti dall’estero. Una leva finora sottovalutata quando non osteggiata da buona parte dell’oligarchia che controlla i vertici dell’economia privata italiana, quella stessa oligarchia che da anni ha stretto rapporti privilegiati con le maggiori banche e con la “casta” politica nazionale, ottenendo aperture di credito e favori che per la maggior parte delle Pmi italiane restano inarrivabili. Forse è davvero tempo di ripensare l’ordine di priorità della politica, del credito e dell’economia italiana, se si vuole dare un rinnovato futuro a questo paese che non finisca col favorire solo gli interessi esclusivi del “soliti noti”.
La possibilità esiste, quello che dovrà essere dimostrata è la volontà di rinnovamento che una maggiore apertura all’estero presuppone se si vuole davvero ottenere non tanto una buonuscita interessante per azionisti non più in grado o interessati allo sviluppo delle proprie attività, ma la messa in mani sicure delle stesse così da assicurare all’azienda una sopravvivenza oltre quella dell’attuale proprietà e management.