Le settimane passano, ma la situazione del mercato del petrolio non si sblocca, con prezzi che restano intrappolati tra i 35 e i 40 dollari al barile (stasera siamo sotto i 37 dollari al barile), complice la precisazione giunta da Mohammed bin Salman, attuale vice principe ereditario dell’Arabia Saudita e tra i volti emergenti della politica saudita, che uscendo da un incontro tra i vertici dell’Opec e altri paesi produttori di petrolio ha spiegato che l’Arabia Saudita congelerà la propria produzione, come previsto da una prima intesa raggiunta con la Russia, solo se anche l’Iran accetterà di fare altrettanto (cosa che al momento appare improbabile se non impossibile, visto che Teheran si è appena riaffacciata sul mercato e punta a recuperare le quote di mercato perdute in questi anni a causa delle sanzioni occidentali).
Così a Riad si inizia a pensare che sia necessario un “piano B”, che contempli la graduale sostituzione del petrolio con altre entrate. Lo stesso Mohammed bin Salman in un’intervista è tornato sull’ipotesi di un collocamento di azioni di Saudi Arabian Oil Company (Saudi Aramco), il principale produttore petrolifero al mondo. Gli adviser sono al lavoro per valutare la cessione di una quota di Saudi Aramco, essendo caduta l’ipotesi di collocare i titoli di qualche controllata. Per quanto riguarda i tempi, non dovrebbero volerci secondo il principe più di un paio d’anni e dunque il debutto in borsa dovrebbe avvenire agli inizi del 2018. Quanto alla quota, si sta pensando di iniziare con “meno del 5%”.
Anche così si tratterà di uno dei maggiori collocamenti di sempre: Saudi Aramco controlla infatti riserve petrolifere pari ad oltre 10 volte quelle di Exxon Mobil, che ha una capitalizzazione di mercato di 344 miliardi di dollari. Anche a voler stimare una valutazione ultra prudente delle riserve ad un prezzo equivalente a 10 dollari al barile, Saudi Aramco potrebbe essere valutata tra i 1.500 e i 2.500 miliardi di dollari (per capirci: Apple, l’azienda che al mondo ha la maggiore capitalizzazione, vale al momento poco meno di 608 miliardi di dollari, dopo aver toccato un picco di 775 miliardi nel febbraio dello scorso anno). Questo significa che l’Arabia Saudita potrebbe raccogliere facilmente tra i 75 e i 125 miliardi di dollari con l’operazione.
Il ricavato della vendita dovrebbe poi essere trasferito a un fondo sovrano, il Public Investment Fund, il cui capitale complessivo è destinato a salire sino a 2 mila miliardi di dollari; a quel punto Riad, che intende far salire la percentuale di investimenti esteri dall’attuale 5% al 50% del fondo. Abbastanza per comprarsi quote di maggioranza oltre che in Apple anche in Alphabet (Google), Microsoft o Berkshire Hathaway (la holding company del celebre gestore americano Warren Buffett, con interessi diversificati dalle linee ferroviarie alle assicurazioni sino a colossi dei beni di consumo come Coca Cola o Gillette). Tutto questo non è destinato ad avvenire di qui a pochi mesi, ma sull’arco dei prossimi 20 anni, in parallelo a un processo di efficientamento della spesa pubblica dell’Arabia Saudita.
Sulla carta è un piano imponente quanto perfetto, ma se è evidente che Riad (come gli altri stati del Golfo) deve trovare il modo di diversificare la sua economia, è altrettanto vero, come ha fatto notare più volte il Fondo mondiale internazionale, che tutti gli stati che hanno provato a ridurre la propria dipendenza dal petrolio finora hanno accumulato molti fallimenti e rarissimi successi. Inoltre la “ritirata” dal petrolio, col senno di poi, avrebbe dovuto iniziare almeno 2-3 anni fa, quando il prezzo del petrolio oscillava tra i 90 e i 100 dollari al barile, ossia più del doppio rispetto alle quotazioni attuali. Inoltre anche altri fondi sovrani e fondi pensione, dalla Norvegia alla Cina, hanno ormai l’esigenza di diversificare i propri investimenti.
In realtà questo potrebbe costituire un vantaggio per le potenziali prede, tra cui anche alcuni gruppi italiani. Il “made in Italy” di qualità continua infatti a riscuotere un grande successo all’estero (e ad andare bene in borsa, come ricordato ieri per quanto riguarda i risultati borsistici del primo trimestre del 2016), ma a causa dello stato di salute precario di gran parte del settore creditizio italiano e dell’ancora più precaria ripresina del mercato domestico è spesso costretto a cercare risorse e sbocchi commerciali all’estero. A questo punto avere tra i soci anche investitori arabi, piuttosto che cinesi, giapponesi, americani o di altra nazionalità, potrebbe rivelarsi un asso nella manica se oltre ai capitali tali soggetti si dimostrassero in grado di apportare relazioni e conoscenze dei mercati di riferimento.
Con buona pace dei difensori a oltranza della “nazionalità” del capitale di controllo, quando un gruppo straniero non si limita a rilevare un marchio o una base clienti in Italia ma vuole investire facendo leva sullo stile e sulla creatività italiana, ma anche sulla qualità di alcune nostre produzioni, i risultati non tardano a vedersi, come nel caso di Hitachi Rail Italy, ossia l’ex Ansaldo Breda, che ha da pochi giorni completato il primo dei 20 veicoli previsti per la nuova metropolitana di Honolulu, la cui produzione aveva preso avvio nei mesi scorsi presso lo stabilimento di Reggio Calabria, per poi essere completata presso l’impianto di Pittsburg, in California. Un segnale importante in un momento in cui sull’economia italiana, come dimostrano i dati del mercato del lavoro (la disoccupazione è risalita a fine febbraio all’11,7%), tornano a spirare venti se non di crisi di certo di maggiore incertezza.