Mercati finanziari ancora in tensione e quasi non fa più notizia il fatto che anche oggi Piazza Affari abbia perso poco meno di 3 punti percentuali, visto che stamattina Tokyo aveva già chiuso in calo del 5,4% e che i listini europei hanno a loro volta perso tra uno e due punti a testa (Madrid il 3,39%, a conferma che è in atto un re-pricing del premio per il rischio che allontana gli investitori dai mercati percepiti come più rischiosi prima e più che da piazze percepite come meno volatili). Ma i guai potrebbero non essere finiti qui e potrebbero portare ad un risultato clamoroso, la dissoluzione dell’Unione europea, ma andiamo per gradi.
Per quanto riguarda il petrolio, ad esempio, l’Iea (l’Agenzia internazionale per l’energia) prevede ora che a causa dell’incremento produttivo da parte di membri Opec come Iran e Iraq, ma anche dell’Arabia Saudita, mentre la domanda continua a mostrare qualche incertezza, la sovrapproduzione petrolifera è destinata a durare più a lungo del previsto e a pesare ulteriormente sulle quotazioni. Nel primo semestre dell’anno dovrebbe dunque registrarsi una sovrapproduzione di circa 1,75 milioni di barili al giorno e non di 1,5 milioni come previsto fino a un mese fa.
In parallelo Goldman Sachs torna è tornata a segnalare che i prezzi del petrolio potrebbero scendere anche sotto i 20 dollari al barile nella ricerca di un livello che riequilibri la domanda e l’offerta. La capacità di stoccaggio inizia infatti ad essere esaurita in alcune località degli Stati Uniti a causa dell’abbondanza di greggio sul mercato, ma le chiusure di impianti estrattivi continua a rilento (si stima che per ora sia stato chiuso circa l’1% degli impianti). Ma con le cisterne ormai colme, ragionano gli analisti americani, i prezzi non potranno che calare rapidamente, portando così alla chiusura di un numero più consistente di impianti, unica soluzione per ridurre l’eccesso di offerta con effetti quasi immediati.
A monte, la domanda rischia di indebolirsi ulteriormente se è vero come è vero che oggi si è già avuta la prima sorpresa negativa dell’anno con i dati della produzione industriale tedesca che per il secondo mese consecutivo hanno registrato un calo: dopo il -0,1% di novembre (dato rivisto), a dicembre il calo è risultato pari all’1,2% mensile, contro attese per una crescita dello 0,5%. E’ la conferma che il rallentamento delle principali economie emergenti verso cui esporta la Germania sta iniziando a pesare sulla ripresa nonostante il buon andamento della domanda domestica e il peggio potrebbe dover ancora venire, visto che la crescita cinese è vista rallentare a +6,3% nel 2016 contro il +6,9% segnato lo scorso anno e il +7,3% registrato nel 2014.
In entrambi i casi a posteriori la crescita cinese è risultata inferiore all’obiettivo ufficiale di Pechino (pari al +7% lo scorso anno e al +7,5% nel 2014), che quest’anno è stato fissato al +6,5%. Tra l’altro non solo la Cina, ma anche Russia, Brasile e Sud Africa stanno ulteriormente frenando in alcuni casi, come per la Russia, dopo un 2015 già negativo. Col tempo la domanda, che comunque continua a crescere, riequilibrerà il mercato e le produzioni dei paesi emergenti e di quelli sviluppati troveranno nuovi mercati verso cui rivolgersi, ma nel frattempo le cose potrebbero peggiorare.
Per quanto riguarda le banche il problema, come già ricordato ieri, è ancora una volta legato al livello di sofferenze su crediti e più in generale al rischio di ulteriore deterioramento dello stesso. Non è un problema solamente italiano, tanto che oggi sono dovuti scendere in campo il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, e il Ceo di Deutsche Bank, John Cryan. Schaeuble in particolare ha voluto rassicurare di “non essere preoccupato” circa le sorti del maggior istituto di credito tedesco.
Solo ieri gli analisti dell’americana CreditSights avevano avanzato il dubbio che l’istituto potesse non essere in grado di rimborsare le cedole dei propri bond subordinati, in particolare per quanto riguarda le scadenze 2017. Cryan, dal canto suo, in un memo intarno di cui ha poi riferito l'agenzia Bloomberg avrebbe ribadito ai dipendenti del gruppo tedesco che la banca è “solida come una roccia” ed ha una “forte” posizione di capitale che le consente di “trarre vantaggio di questa forza per rassicurare il mercato sulla nostra capacità e volontà di pagare le cedole agli investitori”.
Sarà, ma intanto Deutsche Bank stasera ha una capitalizzazione di mercato pari a 18,165 miliardi di euro, contro i 17,227 miliardi di Unicredit e soprattutto contro i 36,234 miliardi di Intesa Sanpaolo. Il che significa che, volendo, Unicredit e Deutsche Bank potrebbero andare ad un “matrimonio alla pari” di quelli che piacciono tanto ai manager di tutto il mondo (perché solitamente non richiedono che una delle due squadre si faccia totalmente da parte), ovvero che Intesa Sanpaolo, che ha appena ribadito di non essere interessata a comprare banche (più o meno decotte) in Italia, potrebbe lanciarsi alla conquista della rivale teutonica ottenendo il controllo del nuovo soggetto che deriverebbe dall’unione dei due gruppi.
Si tratta naturalmente di fanta-finanza, perché in questi casi è la politica a dover dare il disco verde e non pare proprio che né da parte tedesca né italiana ci siano al momento le premesse per realizzare operazioni transnazionali di questo genere. Eppure il rallentamento dell’economia, che potrebbe anche sfociare in una recessione conclamata, e il conseguente maggior rischio su credito (legato alla probabilità che si verifichino nel prossimo futuro un certo numero di fallimenti, non solo ma anche nel comparto petrolifero e delle materie prime), preoccupano i mercati e suggerirebbero di adottare soluzioni innovative e drastiche.
Confidare unicamente sulla forza delle banche centrali, le quali da anni hanno adottato politiche monetarie ultra-rilassate potrebbe essere rischioso, perchè le banche centrali potrebbero non risultare più così incisive indipendentemente dalle decisioni che adotteranno nei prossimi mesi. Mesi che potrebbero segnare un “redde rationem” delle troppe contraddizioni rimaste in un’Unione europea che non si è mai evoluta al punto da appianare le differenze macroscopiche tra le sue varie aree e da pervenire ad un’unione fiscale e politica.
Ciò che non si è fatto con lungimiranza, si farà per evitare il precipitare della situazione o le spinte disgregatrici prevarranno, segnando la fine dell’Unione europea, per lo meno come la conosciamo oggi? La risposta è ancora alquanto incerta, ma lo scenario è ogni giorno leggermente più cupo del giorno precedente.