Petrolio sempre più giù sui mercati, col contratto future sul Wti texano che oscilla poco sopra i 46 dollari al barile e quello sul Brent del Mare del Nord attorno ai 51 dollari dopo che l’Iran ha fatto sapere nel fine settimana di poter rapidamente riavviare la produzione e raggiungere i 500 mila barili al giorno una volta che le sanzioni saranno rimosse (presumibilmente prima della fine dell’anno). A pesare sull’oro nero sono anche i dati macroeconomici cinesi, che continuano a deludere. Un indice dei direttori acquisti realizzato da Caixin Media e Markit Economics stamane è risultato in calo in luglio a 47,8 punti dai 49,4 punti di giugno (un valore dell’indice sotto quota 50 indica una fase di contrazione dell’attività), confermando che gli effetti positivi del recente allentamento delle politiche monetarie di Pechino sono ancora da percepire. L’indice Pmi “ufficiale” della Cina era già calato a giugno pari a 50 punti dai 50,2 punti di maggio.
Se gli italiani possono sorridere sperando in un prezzo della benzina più clemente del solito durante le ferie estive, con la benzina ormai viaggia sugli 1,68 euro al litro e il diesel sta scivolando verso 1,49 euro (nonostante il rialzo del dollaro sull’euro si “mangi” una parte del beneficio e le accise fiscali continuino a pesare più del costo industriale del prodotto stesso), il gruppo Eni non ha alcun motivo di gioire. Il titolo a Milano nel complesso regge (oggi ha perso solo lo 0,13%, nell’ultima settimana ha recuperato un modesto 0,88%) ma il confronto con i livelli a cui oscillava un anno fa resta negativo (-16,26%). Rispetto ai picchi toccati nel luglio 2007, quando il titolo del cane a sei zampe arrivò a sfiorare i 29 euro per azione, il confronto è poi impietoso con un calo del 45% sino ai 15,94 euro attuali.
Andando a guardare i numeri del bilancio semestrale, la differenza tra allora e oggi è altrettanto evidente, del resto. Nei primi sei mesi del 2007 il gruppo “nonostante la penalizzazione di un euro molto forte nei confronti del dollaro e le minori vendite di gas causate da un clima eccezionalmente mite” aveva segnato un utile netto di 4,90 miliardi di euro, peraltro in calo del 9,9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, a fronte di una produzione giornaliera di idrocarburi di 1,735 milioni di barili al giorno (-2,9% rispetto a dodici mesi prima). Quest’anno Eni nel semestre ha segnato un utile netto di soli 590 milioni di euro, nonostante la produzione sia risalita nei sei mesi a 1,726 milioni di barili al giorno nel semestre (+9% su base annua), rimanendo peraltro lievemente al di sotto dei livelli di otto anni fa.
Più che la quantità di idrocarburi prodotti, sui conti di Eni ha pesato il prolungato tracollo delle quotazioni petrolifere e la crisi nera in cui è piombata da alcuni trimestri Saipem, controllata attiva nel settore dell’esplorazione che sconta sia le deboli prospettive di ripresa economica mondiale sia le sanzioni occidentali contro la Russia (che hanno portato alla cancellazione di progetti come South Stream). Se poi guardiamo all’utile netto “adjusted” (che ha risentito quest’anno della svalutazione degli attivi della controllata Saipem) il confronto è ancora più negativo, crollando dai 2,22 miliardi dei primi sei mesi del 2007 (già in calo del 10,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) ai soli 140 milioni di quest’anno (-84% su base annua).
Un andamento avverso che ha avuto inevitabili conseguenze sul dividendo: nel 2007 in base alla semestrale l’allora amministratore delegato Paolo Scaroni propose al Cda un acconto di dividendo di 60 centesimi di euro per azione (invariato rispetto all’anno prima), quest’anno l’attuale numero uno, Claudio Descalzi, proporrà acconto di soli 40 centesimi (contro i 56 centesimi di acconto del 2014). Tra i pochi segnali positivi, dall’Egitto il ministro per la Pianificazione economica, Ashraf al-Arabi, ha ricordato l’altro ieri in una intervista all’agenzia Reuters come già oltre la metà degli accordi raggiunti in una recente conferenza internazionale tenutasi a Sharm El Sheikh si sia già tramutata in accordi d’investimento e siano iniziati i primi lavori per gli stessi.
In particolare il Cairo ha già siglato accordi per un valore complessivo di circa 21 miliardi di dollari con compagnie petrolifere come British Petroleum (Bp), British Gas (Bg) ed Eni. La notizia non ha però smosso gli analisti, che continuano ad essere estremamente prudenti sul gruppo italiano: Jefferies, ad esempio, ha limato il prezzo obiettivo sul titlo a 13,5 da 13,7 euro, confermando la raccomandazione “underperform” (farà peggio del mercato) dopo la semestrele, pur commentando come “i risultati delle divisioni “core” di Eni sono stati forti, aiutati dalle iniziative prese sul taglio dei costi e dall’effetto cambio favorevole” e che “anche la guidance è apparsa buona”. Tuttavia, i ripetuti profit warning di Saipem hanno reso “una potenziale uscita (di Eni dal capitale della controllata, ndr) ancora più difficile a nostro avviso”.
Descalzi, insomma, rischia di rimanere a lungo impantanato in attività a bassa marginalità di profitto e fortemente dipendenti dalle alterne fortune del quadro geopolitico e questo piace poco al mercato, nonostante giudizi nel complesso positivi dati dagli analisti agli sforzi intrapresi dal gruppo. A questo punto persino l’eventuale ritorno in Iran, una volta rimosse le barriere legate alle sanzioni, potrebbe non essere sufficiente a far ripartire il titolo in borsa (e i dividendi) per la scarsa gioia del suo azionista di controllo, il Tesoro, che possiede tuttora direttamente il 4,34% del capitale e indirettamente, tramite Cassa depositi e prestiti (controllata all’80,1% dal Tesoro) il 25,76%, per un totale del 30,10% sufficiente a garantirgli il pieno controllo e, finora, una discreta redditività che ora appare a rischio.