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Opinioni

Perché la tassa globale alle multinazionali è il vaccino contro l’ingiustizia di cui abbiamo bisogno

L’accordo raggiunto dai Paesi del G7 per un’imposta globale sui profitti del 15% è un passo da giganti nella direzione di una maggiore equità fiscale. E in una fase in cui è necessario spendere per ripartire, senza far pagare a debito alle generazioni future, chiedere a chi ha di più diventa necessario. Ora bisogna solo sperare che gli Stati non si scoprano divisi e deboli di fronte ai colossi economici e finanziari, però.
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La notizia, prima di tutto: oggi, sabato 5 giugno 2021, i Paesi del G7 – Usa, Regno Unito, Canada, Germania, Francia, Giappone e Italia – hanno raggiunto un accordo che mira a impedire alle grandi multinazionali di insediare il loro quartier generale in un paradiso fiscale e costringerle a pagare una parte maggiore del loro reddito ai Paesi dove fanno i loro ricavi e i loro profitti. In soldoni, si parla di una tassa del 15% sui profitti, che si applicherà in qualunque Paese in cui le imprese decideranno di insediare il loro quartier generale. E di un aggiuntiva tassa del 20% sui profitti che eccedono il 10%. Anch’essa, stando alle speranze dei firmatari, si pagherà in qualunque Paese al mondo.

Questo è l’auspicio, almeno. Perché, per quanto pesante, questo accordo è stato firmato da soli sette Paesi. E poco importa che siano i più ricchi al mondo, in fondo: nessuno tra loro – se si eccettuano Londra e lo stato americano del Delaware – è definibile come un paradiso fiscale. E anche nei Paesi del G20, che si spera accetteranno e ratificheranno anch’essi la medesima proposta il prossimo ottobre in Italia, non c’è nemmeno un paradiso fiscale, a dire il vero. Ancora: sarà dura, anche solo in Europa, convincere Paesi Bassi, Irlanda, Lussemburgo, Svizzera, giusto per dirne quattro, a controfirmare una proposta che potrebbe far volare via le tantissime multinazionali che hanno issato una delle loro bandiere, per pagare meno tasse, o non pagarne proprio.

Sarà difficile, ma da oggi è un po’ meno impossibile. Perché l’accordo di oggi al G7 e ancor di più quello del G20 di ottobre sarà un segnale molto forte sia per le multinazionali sia per i paradisi fiscali. Per le multinazionali, che qualora decidessero di porsi al di fuori di questo quadro rischierebbero un danno reputazionale enorme, tanto più dopo una crisi economica e sociale devastante come quella legata alla pandemia di Covid 19. Per gli Stati, perché se non dovessero accettare di imporre una tassa globale alle multinazionali si porrebbero al di fuori di un consesso economico che comprende gli Usa, la Cina e le principali economie europee. Non si vive di sola fiscalità agevolata, e il messaggio forte e chiaro dei potenti della Terra è che nell’era post Covid non si può lasciare nemmeno un centesimo a terra.

Intendiamoci: il 15% sui profitti è ancora poco, se si pensa che la pressione fiscale in Italia oscilla tra il 40% del 20219 e il 59,1% del 2020. E che qualunque lavoratore dipendente lascia allo Stato ben più del 15% di quel che guadagna, rigorosamente trattenuto alla fonte, perché l’evasione e l’elusione fiscale sono troppo alte per permettersi di fidarsi. Però, se non altro, è qualcosa. Soprattutto se si pensa che le imprese con sede legale in Irlanda pagano lo 0,05% sui profitti. O che, come ha stimato l'economista francese Gabriel Zucman, le piazze offshore sottraggono all’Italia circa 7 miliardi di euro all'anno, gran parte dei quali (quasi il 90%) a causa delle politiche fiscali di altri Paesi europei come Lussemburgo, Irlanda, Olanda, Belgio, Malta e Cipro.

Non abbiamo sfere di cristallo, ma questo piccolo accordo può dare davvero inizio a una nuova storia. Secondo uno studio dell’International Centre for Tax and Development, nel solo 2019 le multinazionali hanno spostato circa mille di miliardi di dollari in profitti nei paradisi fiscali. Mettiamo un imposta al 15% e sono 150 miliardi l’anno di extragettito che ogni anno potrebbero tornare là dove sono stati prodotti, permettendo ai governi di ridurre le tasse sulle piccole imprese o sui redditi da lavoro, o di aumentare la spesa per servizi cruciali come scuola e sanità. In entrambi i casi, migliorando il benessere delle persone sacrificato sull’altare dei profitti delle grandi imprese, tecnologiche e non.

In una fase di spese enormi, di debiti pubblici che si impennano e di un’economia globale che deve necessariamente ripartire più forte di prima, non ci potrebbe essere notizia migliore. La speranza è che nel braccio di ferro contro i giganti dell’economia e della finanza globale gli Stati non si scoprano più deboli e divisi di quel che sono. E soprattuto che le opinioni pubbliche e gli elettori di tutti i Paesi facciano sentire la loro voce affinché giustizia (fiscale) finalmente sia fatta. Almeno un po’.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it e membro del board of directors dell'European Journalism Centre. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro.15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019). Il suo ultimo libro è "Nel continente nero, la destra alla conquista dell'Europa" (Rizzoli, 2024).
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