La notizia, prima di tutto: nella settimana appena trascorsa sono stati pubblicati i risultati di un test durato quattro anni, tra il 2015 e il 2019, che ha coinvolto più di 2500 lavoratori di Reykjavik, la capitale dell’Islanda. Il test consisteva nel far lavorare queste persone, dipendenti di ospedali, uffici pubblici, scuole, servizi sociali, per quattro giorni alla settimana – o, se preferite, per 35 ore anziché per 40, senza alcun taglio allo stipendio – e vedere cosa succedeva.
La notizia, per l’appunto, è che le cose non solo sono andate bene, ma addirittura meglio del previsto. La produttività – ciò che viene prodotto in un dato periodo di lavoro – non solo non è calata, ma è addirittura aumentata. E il benessere dei lavoratori è sensibilmente migliorato: “Un risultato straordinario”, l’hanno definito gli stupefatti analisti della società di ricerca Autonomy, incaricati dal governo islandese di portare avanti questo studio (che trovate quinella sua versione integrale)
A ben vedere, tuttavia, l’entusiasmo e lo stupore potrebbe essere addirittura esagerati. Innanzitutto, perché la settimana lavorativa di quattro giorni non è niente di rivoluzionario, ma una prassi per numerosissime organizzazioni nel mondo: la Society for Human Resources Management, una delle più importanti realtà di consulenza nell’ambito della gestione delle risorse umane ha calcolato che già nel 2019, negli Usa, il 23% delle grandi aziende – una su quattro – attuava uno schema di lavoro che prevedeva 72 ore di riposo continuativo a settimana. E in un articolo della Bloomberg Businessweek dello scorso 21 marzo è stato rilevato che le offerte di lavoro che offrono un orario settimanale di quattro giorni sono triplicate nel giro di soli quattro anni.
I motivi sono anch’essi abbastanza ovvi, perlomeno nei Paesi ricchi e tecnologicamente avanzati. Il primo motivo è che i lavoratori preferiscono lavorare meno. O meglio, che preferiscono scegliere e rimanere in aziende che offrono orari flessibili. Di fatto, la capacità di organizzare il lavoro in modo da dare più tempo libero alle persone sta diventando un fattore chiave per attrarre i talenti migliori.
Questo porta automaticamente al secondo motivo: per offrire più tempo libero ai talenti migliori le imprese devono far ampio ricorso alla tecnologia, ottimizzare i processi, ridurre pause e tempi morti, migliorare il monitoraggio dell’efficienza del lavoro. In poche parole: sono costrette a ridurre gli sprechi di tempo, anche grazie a un maggior ricorso alla tecnologia e all’automazione dei processi: “La gente non si rende conto di quanto tempo spreca durante la giornata”, ama ripetere Andrew Barnes, autore del saggio “The 4 Day Week”.
Il risultato accontenta tutti: i lavoratori hanno la flessibilità d’orario che desiderano. Le imprese riducono gli sprechi, aumentano efficienza e produttività e hanno lavoratori più felici. E l’indotto ringrazia: con più tempo libero a disposizione le persone hanno più tempo per riposarsi, ma anche per viaggiare, informarsi, divertirsi, spendere, fare volontariato. Di fatto, aumentando di un terzo il tempo libero a disposizione delle persone, aumenta di un terzo anche l'indotto potenziale di tutti quei settori economici che nascono per riempire quel tempo libero.
Non è un caso, peraltro, che già da qualche tempo in Germania la IG Metall, il sindacato dei metalmeccanici tedeschi, abbia chiesto di inserire la settimana da quattro giorni lavorativi nel contratto collettivo del lavoro del settore automobilistico. E che in Francia una realtà come la Renault – supportata, va detto, da generosi sussidi statali, stia già adottando questa formula in diversi dei suoi stabilimenti.
Insomma, quel che abbiamo visto nella settimana appena trascorsa in Islanda, non è che l’ultima coda di un processo già in essere, abbastanza maturo per diventare regola, dopo una pandemia che ha sdoganato su larga scala il concetto del lavoro flessibile e smart.