Novembre è agli sgoccioli, il 2014 è quasi finito e già iniziano le previsioni economiche per il 2015. Che, sorpresa, non parlano di una ripresa, grande o piccola che sia, ma ancora una volta di una contrazione del Prodotto interno lordo. Secondo l'ultima Nota Mensile del’Istat, mentre il 2014 dovrebbe chiudersi con una variazione del Pil pari a -0,3% rispetto al 2013 (ammesso che l’ultimo trimestre si chiuda senza variazioni rispetto al terzo trimestre, ipotesi base dello scenario Istat che tuttavia sconta un campo di incertezza dello 0,2% sopra e sotto), in uno scenario che vede ancora “un un contributo negativo della domanda interna al netto delle scorte, condizionata dalla brusca caduta degli investimenti, e un modesto aumento del contributo della domanda estera”, “la crescita acquisita per il 2015 è pari a -0,1%”.
Oibhò, ma non doveva essere il 2015 l’anno della svolta? Secondo il governo sì, tanto che l’ultima versione del Def parla di una variazione del Pil del +0,6% l’anno venturo e del +1,0% nel 2016. Ma già lo scorso anno il Def preparato dal governo Letta parlava di una variazione del Pil entro la fine di quest’anno del +1,0% che l’ex premier giudicava “veramente a portata di mano” e abbiamo visto come è andata. La stessa Banca d’Italia, pur più prudente del governo, nelle proiezioni contenute nel Bollettino Economico del gennaio 2014 segnalava “un punto di svolta dell’attività alla fine del 2013” che avrebbe portato quest’anno a “una moderata ripresa dell’attività economica (nel 2014, ndr), che accelererebbe, sia pur in misura contenuta, l’anno prossimo” (ossia il 2015, ndr) e quindi “dopo essersi ridotto dell’1,8% nel 2013, il Pil crescerebbe dello 0,7% quest’anno e dell’1,0% nel 2015”. Mentre l’Istat lo scorso febbraio segnalava una “variazione acquisita per il 2014” pari a zero.
La recessione “lunga” ha tratto in inganno anche la Commissione Ue, che il 25 febbraio scorso parlava di una possibile crescita del Pil dello 0,6% nel 2014 (stima che ritoccava marginalmente al ribasso il +0,7% atteso dalla Commissione Ue esattamente dodici mesi or sono, nel novembre 2013). Si noti che la stessa Commissione Ue a inizio novembre ha dichiarato di attendersi un calo del Pil italiano a fine anno dello 0,4% e di un rimbalzino (+0,6%) l’anno venturo. Sul perché l’Italia non riesca più a crescere (neppure dopo aver incorporato in parte il “sommerso”, come fatto quest’anno per recepire la direttiva europea Sec 2010) si è detto e scritto più volte dentro e fuori l’Italia. Il Fondo monetario mondiale ci sta dicendo di fare più riforme e tagliare le tasse da anni, l’Ocse ha fatto eco ancora di recente invitando Italia (e Francia) a badare più alle riforme che alla rigida osservanza di criteri meramente contabili, da quasi tre anni io stesso suggerisco di riformare lavoro, credito e fisco.
Al netto della propaganda pro o contro i singoli provvedimenti, di riforme strutturali in Italia se ne sono viste finora poche per non dire nessuna. E quelle poche appaiono non prive di zone d’ombra e compromessi che ne faranno slittare in avanti negli anni l’impatto positivo. E’ il prezzo di vivere in una democrazia, indubbiamente. Ma è anche il costo di aver supinamente accettato il progressivo imbarbarimento dei nostri costumi economici e sociali. Un paese che è rimasto fermo, culturalmente parlando (dove per cultura si intenda la capacità di “interpretare” correttamente la realtà che ci circonda, scorgere le giuste correlazioni causali, interrogarsi su quali rimedi possano essere posti in essere per affrontare i problemi, valutare quali costi debbano essere affrontati e come possano essere ripartiti, oltre ai vantaggi che dalle soluzioni adottate deriveranno), agli anni Ottanta-Novanta, nei migliori dei casi, è un paese destinato a diventare sempre più marginale in un mondo che proprio dagli anni Novanta è mutato radicalmente, con l’emergere di nuovi protagonisti in ambito mondiale tanto in termini geopolitici quanto tecnologici.
Finché i giornali continueranno a pensare di guadagnare lettori innovando “la veste grafica” quando il loro pubblico ormai è costantemente aggiornato dal flusso di notizie che passano dai social media e vengono “lette” da dispositivi mobili individuali; finché terranno banco sui media mainstream solo le crisi di aziende che vanno da Meridiana ad Alitalia, dall’Ast a Fiat; finché il “made in Italy” cercherà di difendere i suoi elevati margini di profitto facendo produrre l’80% o il 90% della sua produzione all’estero; finché le aziende italiane resteranno strangolate da un fisco che tra imposte dirette e indirette, accise, addizionali e quant’altro è ormai socio di maggioranza de facto di ogni piccola o media impresa italiana (ma non di chi le tasse evade, italiano o straniero che sia); finché corruzione dilagante, criminalità arrogante, burocrazia ottesa sarà la quotidianità dell’Italia e i suoi giovani (e meno giovani) talenti costituiranno virtuose eccezioni alla regola, sia che decidano di emigrare all’estero per veder valorizzate le proprie competenze sia che trovino una propria nicchia di mercato in Italia.
Finchè varrà tutto questo, nulla cambierà e dunque la ripresa resterà una sorta di Santo Graal destinato a sembrare sempre a portata di mano ma a sfuggire continuamente. La nostra è una crisi culturale di cui la crisi economica è diretta conseguenza. E le stime sulla variazione futura del Pil continuamente riviste al ribasso lo testimoniano drammaticamente a chi solo abbia la volontà di aprire gli occhi di fronte alla realtà.