Ci sono volte che un analista deve lasciare parlare i protagonisti. Jeff Bezos, fondatore di Amazon.com, dopo aver investito in molteplici progetti, da mondi virtuali come Second Life della Linden Lab ai servizi sanitari di Qliance e ZocDoc, ha annunciato di aver rilevato per 250 milioni di dollari il Washington Post. Un po’ come se Federico Marchetti, fondatore di Yoox.com, un bel giorno decidesse di comprarsi il Corriere della Sera da Rcs Mediagroup (cosa che ovviamente non farà mai, a differenza della Fiat di John Elkann). Perché lo ha fatto se proprio Amazon ha rivoluzionato il settore media americano, invertendo letteralmente il “paradigma” del settore, dalla perfetta conoscenza dei propri prodotti (così da poterli catalogare e vendere per genere, autore, lingua, formato etc) ma non necessariamente dei propri lettori, ad una conoscenza “chirurgicamente” precisa dei gusti e della spesa dei propri lettori, potendo ignorare del tutto le caratteristiche dei “prodotti” che vende loro?
Lo ha spiegato lui stesso in una lettera inviata ai redattori del Washington Post e subito resa disponibile online dalla storica testata giornalistica americana. Perché crede che non siano “i valori del Post” che debbano essere cambiati, ossia che “l’impegno del giornale” debba rimanere “rivolto ai lettori e non agli interessi privati dei suoi proprietari” (ogni paragone con gruppi editoriali italiani è puramente casuale e irrealistico) e che si dovrà continuare a “perseguire la verità ovunque ci porti”, a lavorare “con impegno per non compiere errori” e che “quando ne commetteremo, ripareremo in fretta e completamente”. Già questo basterebbe a capire perché solo in America e non nell’Italietta dei “giornaloni” usati come megafoni di questo o quel gruppo di potere, impresa, partito, si poteva assistere ad una simile operazione. Ma Bezos va oltre e spiega: “nell’arco dei prossimi anni al Post ovviamente ci saranno dei cambiamenti. Si tratta di un fattore essenziale, che si sarebbe verificato anche in assenza di una nuova proprietà”.
Internet, sottolinea Bezos, “sta modificando quasi tutti i fattori del business delle notizie: accorciando i cicli delle notizie, consentendo nuovi tipi di competizione, alcuni dei quali portano con sé costi di raccolta delle notizie bassi o inesistenti. Non c’è una mappa e tracciare un percorso innanzi a noi non sarà semplice. Avremo bisogno di innovare, il che significa che dovremo sperimentare”. Ma Bezos è “esaltato e ottimista davanti alle possibilità offerte dall’innovazione” a differenza di molti, troppi imprenditori, banchieri e politici italiani, sempre attaccati ad una disperata difesa del vecchio, delle rendite costituite, degli interessi più o meno legittimi e più o meno conflittuali con altri che ciascuno di costoro interpreta (fin troppe volte con una molteplicità di ruoli che finisce col favorire ulteriormente la conservazione più che l’innovazione, la difesa di rendite più che la concorrenza).
Intendiamoci: a molti analisti la mossa di Bezos non è sembrata così “entusiasmante” come sembrerebbe trapelare dalle parole di una lettera comunque scritta con chiari intenti “propagandistici” (Bezos deve comunque tentare di non perdere per strada i migliori collaboratori del gruppo ed anche per questo ha confermato in toto il management, che pure è lo stesso che evidentemente non è riuscito a cavalcare la rivoluzione dei media abbastanza bene da poter continuare a rimanere un gruppo autonomo), tanto che già ieri sera Amazon.com ha perso un punto percentuale a Wall Street. E certamente i problemi italiani, come ha sottolineato Franco Aletti (uno dei componenti della celebre famiglia milanese di agenti di cambio da sei generazioni) commentando su Twitter il mio pezzo di ieri sull’acquisizione da parte di Tamburi Investment Partners di una partecipazione indiretta in Moncler, non riguardano solo l’evidente arretratezza culturale di grande parte del comparto economico, finanziario e politico ma anche e soprattutto “la non certezza della normativa fiscale, che fa scappare gli imprenditori e gli investitori” anche quando apprezzano “il settore e l’imprenditore italiano” come nel caso di Ruffini.
Eppure non ci sono molte alternative: occorre chiedere con forze un nuovo sistema di regole funzionali che coniughi le legittime esigenze in termini di stato sociale con la possibilità di tornare a investire e fare impresa (in modo profittevole, perché l’utile non è lo “sterco del diavolo” ma il segno di un business model funzionante), ma occorre soprattutto cambiare mentalità e iniziare a investire in innovazione. Dando fiducia ai giovani (e ai meno giovani: io stesso sto portando avanti un progetto, Mondivirtuali, e nonostante i miei 46 anni non mi ritengo meno innovatore di tanti altri giovani progettisti conosciuti grazie a Kublai) e dando credito alle imprese innovative, anche sapendo che molte potranno fallire. Il fallimento fa parte di quel processo di sviluppo tramite errori chiamato esperienza. Se questo paese non saprà dotarsi di nuove competenze e di un’esperienza al passo coi tempi, la ripresa resterà una chimera, indipendentemente dal “leader” pro tempore al comando.