Mentre in Italia il premier Enrico Letta, che fa vedere di non temere la possibile condanna di Silvio Berlusconi a fine mese da parte della Cassazione e le relative ripercussioni sulla tenuta del suo esecutivo, promette per ottobre un piano di nuove privatizzazioni italiane, promettendo che il 2014 sarà l’anno del rilancio di tali operazioni nel Belpaese, la “troika” Ue sottolinea al termine della sua visita ad Atene che da inizio anno ad oggi le privatizzazioni greche, pur proseguendo, sono nettamente in ritardo sui tempi previsti (tanto che la previsione viene tagliata dagli 1,8 miliardi entro fine settembre indicati dal governo greco a 1,6 miliardi) e continua ad esservi un elevato rischio di esecuzione rispetto agli obiettivi, peraltro alzati a 5,1 miliardi di euro entro la fine del prossimo anno, quando dovrebbe tra l’altro finire sul mercato una quota “significativa” della Eurobank, finora salvata solo dall’intervento dei fondi pubblici.
Il problema è che spesso, al di là di alcune grandi aziende di stato o delle residue quote di capitale rimaste in mano pubblica, si pensi ai casi di Eni, Enel, Terna o anche Saipem piuttosto che Snam Rete Gas, per molti settori (tipico il caso dei trasporti) le aziende da privatizzare sono gravate da un pesante fardello di debiti. Nel caso italiano privatizzare “in bonis” solo le società significherebbe in alcuni casi privarsi di un rendimento superiore ai tassi che al momento il Tesoro si vede costretto a pagare (tassi tornati a scendere dopo metà luglio, tanto che sia i Ctz venerdì sia i Bot a 6 mesi stamane hanno visto una domanda robusta che ha consentito di collocare per intero gli importi massimi previsti, pari in tutto a 11,5 miliardi di euro, a fronte di rendimenti tornati su livelli che non si vedevano dallo scorso maggio).
Eni, ad esempio, paga circa il 6,5% in termini di dividendi ogni anno, mentre Enel remunera i suoi azionisti con una cedola di poco inferiore al 6% e Terna appena oltre tale soglia. Mentre sul proprio debito lo stato italiano offre su tutte le scadenze rendimenti non superiori al 5% (che paga il Btp a 30 anni). Ma se mantenere queste partecipazioni può risultare conveniente in termini finanziari, altro discorso sono aziende come la campana Eavbus, fallita nel novembre del 2012 sotto 38 milioni di euro di debiti e messa in vendita. Avrebbe dovuto aggiudicarsela alcuni giorni fa la Clp, una società di trasporti privati casertana, che ha vinto l’asta offrendo 1 milione e ottanta mila euro, superando così la Tam,società romana che gestisce il trasporto veloce tra Fiumicino e le stazioni Termini e Ostiense. Siccome si sarebbe trattato di affittare un ramo d’azienda per un anno o anche meno (la Regione Campania ha infatti revocato i contratti di servizio giudicando le offerte dei privati prive di adeguate garanzie, contratti che andranno ora rimessi a bando entro fine anno), Carlo Esposito, patron di Clp, si è ben guardato (potendo fare un’offerta parziale) di farsi carico anche dei 40 milioni di debiti relativi al Tfr maturato dai 1.200 dipendenti della società (che ha 540 mezzi di cui però 72 avviati alla rottamazione).
La vicenda assume dei contorni a dir poco confusi (o grotteschi?) se si pensa che alla gara per la “privatizzazione” aveva partecipato anche un consorzio pubblico fatto da Eav Holding, capogruppo di Eavbus, Air e Ctp, quest’ultima azienda trasporti della provincia di Napoli che rischia di fallire a sua volta se non troverà 9 milioni di euro per ricapitalizzare a fronte di un debito di una ventina di milioni, in calo da un picco di 30 milioni di rosso toccato a fine 2008 ma troppo lentamente per evitare l’erosione di oltre un terzo del capitale sociale. Il consorzio pubblico, attraverso una compensazione tra crediti e debiti infragruppo (dunque senza sborsare fisicamente un euro) proponeva di garantire fino a 22 milioni di euro per il Tfr e godeva dell’appoggio dei sindacati, scesi in campo contro la privatizzazione. E’ solo un esempio tra gli ultimi venuti alla ribalta sulle cronache italiane per capire quanto sia effettivamente difficile discernere, almeno per la classe politica italiana centrale o locale che sia, la tutela di alcuni diritti pubblici (al trasporto, all’istruzione, alla salute etc) dall’organizzazione efficiente dei relativi servizi, sia che vengano svolti da un’impresa pubblica sia che siano affidati a operatori privati.
Così non sorprende che la “troika” Ue-Bce-Fmi nel suo documento punti il dito anche nel caso della Grecia sui rischi “di esecuzione” e sottolinei che pur a fronte di progressi fatti il governo di Atene è significativamente in ritardo rispetto alle scadenze che erano state concordate. Peraltro occorre dire che la Ue stessa, votandosi a una politica unicamente di repressione fiscale per accontentare il governo tedesco che a settembre vivrà il suo test elettorale e non può cedere di un millimetro per non farsi scavalcare da posizioni antieuropeiste (che come in ogni campagna elettorale sfruttano demagogicamente il “mito” negativo degli stati del Sud imbroglioni e con le mani bucate, potendo del resto far leva su episodi di mala gestione eclatanti non solo ma anche in Grecia, Spagna, Italia e Portogallo), ha finito col complicare le cose accentuando una crisi già grave di per sé e sfociata in una recessione duratura che in parte sta finendo col minare anche la forza delle esportazioni tedesche, in questo momento unico vero motore rimasto a pieni giri dell’economia europea.
Insomma: i dubbi non mancano e la sensazione, sgradevole, è che approfittando della crisi i governi del Sud Europa non intendano fare significativi passi in avanti ma semplicemente stiano provando a far credere ai mercati e all’opinione pubblica che qualcosa la si farà tra qualche mese, per “tirare a campare” e vedere che succederà. Speriamo che non finisca come quella storia della luce in fondo al tunnel di cui vi ho già parlato varie volte e che le ideologie lascino spazio alla ricerca empirica delle soluzioni più efficienti e meno dolorose possibile (indolori non è pensabile che saranno, purtroppo) per far ripartire l’economia anche attraverso un efficientamento e una rimodulazione della spesa pubblica che passi per una nuova stagione di grandi e piccole privatizzazioni. Purchè fatte “cum grano salis”. E’ forse chiedere troppo?