Pensioni, la riforma per l’uscita anticipata dal lavoro: spuntano la quota 41 e la quota 102
L’unica certezza, al momento, è che la quota 100 va superata. Almeno nella sua forma attuale. E va fatto trovando una nuova misura che consenta di avere maggiore flessibilità in uscita. Il governo sta studiando le ipotesi per una riforma delle pensioni che eviti lo scalone di cinque anni che si verrebbe a creare tra la fine della quota 100 il 31 dicembre 2021 e il giorno successivo, quando con gli stessi requisiti si potrebbe uscire dal lavoro solamente cinque anni più tardi. Al momento si fanno strada due ipotesi: la quota 41 e la quota 102. Vediamo di cosa si tratta e in che modo potrebbe cambiare l’uscita anticipata dal lavoro.
Come funzionerebbe la quota 41
È il Corriere della Sera a spiegare come potrebbe funzionare la quota 41: l’idea è quella di mandare in pensione chi abbia almeno 41 anni di contributi versati, indipendentemente dall’età anagrafica: un’opzione che governo e sindacati stanno valutando in questi giorni di confronti per una riforma previdenziale che dovrebbe arrivare insieme alla legge di Bilancio. Con la quota 41, quindi, si potrebbe andare in pensione con 41 anni di contributi versati. Questa è la richiesta soprattutto dei sindacati, che puntano a un meccanismo simile a quello che vale per i lavoratori precoci. Dal governo, dopo qualche titubanza iniziale, sembra arrivare sul tema una timida apertura.
Il problema principale della quota 41 riguarda i suoi costi: alcuni studi preliminari svolti prima dell’introduzione della quota 100 facevano stimare una maggiore spesa per 12 miliardi di euro sin dal primo anno, il che rende molto difficile applicare questo anticipo pensionistico. Motivo per cui restano in campo anche altre opzioni, come la conferma della quota 100 ma con limitazioni e penalizzazioni per chi aderisce.
Pensioni, l’ipotesi della quota 102
L’altra ipotesi, quella della quota 102, viene riportata dal Messaggero. Rispetto alla quota 100 la differenza sarebbe nell’età anagrafica (si passerebbe da un minimo di 62 a un minimo di 64 anni) senza modificare il paletto dei contributi versati, rimanendo sempre il criterio dei 38 anni. L’altra differenza sostanziale, che renderebbe la riforma più sostenibile dal punto di vista economico, sarebbe il taglio dell’assegno, con circa il 3% in meno del montante retributivo per ogni anno di anticipo (e quindi rispetto alla normale età dei 67 anni per la pensione). Il che vorrebbe dire una decurtazione sul trattamento pensionistico circa del 5%. La misura potrebbe riguardare fino a 150mila persone l’anno e il suo costo potrebbe essere intorno agli 8 miliardi di euro il primo anno, con una diminuzione negli anni successivi. Inoltre il governo sembra andare nella direzione di un rinnovo immediato dell’Ape sociale e dell’Opzione donna.