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Opinioni

Pechino vuol ripartire, l’Italia incrocia le dita

La Cina allenta i vincoli per le sue banche e aumenta la liquidità per sostenere la propria crescita. Piazza Affari festeggia, ma a far festa potrebbe essere soprattutto, per una volta, l’economia reale: in Cina già lavorano oltre 2 mila aziende italiane…
A cura di Luca Spoldi
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La Cina pare lontana ma è sempre più vicina: il fatto che la banca centrale di Pechino abbia deciso nel weekend di limare di un punto percentuale il coefficiente di riserva obbligatoria per le maggiori banche al 18,5%, il minimo storico, pompando inoltre altra liquidità nel mercato per 200 miliardi di dollari è bastato per far ripartire i listini europei, complici anche tenui segnali di distensione in arrivo dalla Grecia (dove il governo ha emesso un decreto che obbliga tutte le amministrazioni pubbliche, inclusi i fondi pensione, “a depositare le loro riserve di cassa e a trasferire i loro fondi nei loro conti presso la Banca di Grecia”, cosa che dovrebbe facilitare il rispetto degli impegni con l’Fmi per il pagamento delle tranche di aiuti in scadenza questo mese e il prossimo, allontanando il rischio di un default) e la buona apertura di Wall Street dove continuano a venir pubblicate trimestrali migliori del previsto in particolare da parte delle grandi banche come Bank of America, Wells Fargo, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Jp Morgan.

Ma la vicinanza della Cina non è solo una questione di “feeling tra mercati finanziari: una ricerca di Barclays oggi ha segnalato come secondo i dati Global Blue la spesa turistica cinese ha segnato in marzo un incremento record (+122,4% su base annua) dopo essere già cresciuta del 51,9% annuo a febbraio. La spesa dei turisti a livello globale, secondo gli analisti, ha invece segnato un rialzo del 47,4% sull’anno, sempre in marzo, salendo sui massimi dal maggio 2011 “nonostante il continuo calo della spesa russa (-39% su base annua)”. Siccome il “made in Italy” è sempre più legato a produzioni di lusso come Salvatore Ferragamo, Tod’s, Luxottica, ma anche Prada, Gucci, Brunello Cucinelli e decine di altri marchi dell’abbigliamento e della gioielleria, se aumenta il flusso e la spesa di turisti cinesi, attratti anche dall’euro debole, per le aziende italiane del settore, quotate e non, è un bene.

Anche l’interscambio commerciale tra Italia e Cina appare del resto in crescita: a febbraio, come ha segnalato Istat qualche giorno fa, l’inport dalla Cina, in particolare di metalli di base e prodotti in metallo, esclusi macchine e impianti, è aumentato del 18,1% (anche se l’export è calato del 7,7%). In termini di scambi commerciali l’Italia rappresenta tuttora  solo il quindicesimo partner commerciale della Cina a livello mondiale (il quarto a livello europeo), con scambi per una trentina di miliardi complessivi (l'obiettivo annunciato nel 2010 da Silvio Berlusconi di salire a 100 miliardi entro il 2015 si è rivelato finora irraggiungibile) particolarmente sviluppati nel settore meccanica strumentale, seguito dalla moda, dal settore auto e dalla manifattura. Nel 2013 le esportazioni italiane erano cresciute del 9,5% mentre le importazioni dalla Cina erano calate del 7,5%, mentre nei primi nove mesi del 2014 gli scambi commerciali sono tornati a salire in entrambe le direzioni di circa il 6% come segnala la Sace.

In Cina operano stabilmente circa 2 mila imprese italiane, attraverso le varie modalità di presenza, alle quali fanno nel complesso capo oltre 60.000 posti di lavoro e un fatturato di circa 5 miliardi di euro, con investimenti ben diversificati ma che registrano quote significative in particolare per la meccanica e il tessile. Anche la Cina, a modo suo, sta soffrendo di una deflazione strisciante, tanto che a marzo l’indice dei prezzi al consumo è cresciuto dell’1,6% (come già a febbraio) rispetto allo stesso mese 2014, ben distante dal 3% di riferimento, mentre il governo ha fissato al 7% l’obiettivo di crescita del Pil, l’incremento più basso degli ultimi 25 anni, ma a fronte di un Pil che nel frattempo è già salito a oltre 13.374 miliardi di dollari contro i 1.805 miliardi del Pil italiano.

Certo pro-capite il Pil cinese resta tuttora modesto, appena 9.828 dollari a fine 2014, contro i circa 29.600 dollari dell’Italia, ma proprio per questo la crescita cinese è particolarmente appetibile per l’Italia (e non solo) in quanto in larga parte ancora da essere sfruttata per prodotti e servizi di lusso come quelli del “Made in Italy” di migliore qualità. Insomma, se le banche cinesi hanno maggiore liquidità e potranno fare più prestiti, o assorbire con minori traumi qualche “incidente di percorso” come il default appena annunciato da Kaisa Group Holdings, il primo costruttore cinese a dichiarare default sul proprio debito denominato in dollari non essendo riuscito ad onorare il mese scorso i pagamenti su due bond (scadenza 2017 e 2018) denominati nella valuta americana, per complessivi 52 milioni di dollari, a guadagnarci potranno essere anche le aziende e i marchi italiani.

A questo più che ai palliativi come il “fantomatico (e già sparito dai radar) tesoretto da 1,6 miliardi di euro creato con un tratto di penna dal governo modificando le stime del Def devono aggrapparsi le aziende italiane per sperare di superare il lungo inverno in cui la “cura letale” tedesca le ha gettate. E quindi ben vengano le notizie dalla Cina, non solo e non tanto per il loro evidente impatto finanziario, ma anche e soprattutto per le conseguenze che potranno avere per l’economia reale.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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