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Pechino ha fame di energia italiana

La banca centrale cinese sale sopra il 2% di Eni ed Enel: per molti è un segnale che Pechino manda a Roma in vista di future dismissioni di asset nel settore petrolifero e dell’energia da parte dei due colossi italiani…
A cura di Luca Spoldi
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Invitati a gran voce a fare la loro parte nelle fasi più convulse della crisi del debito europeo, gli investitori cinesi hanno atteso, valutato, ponderato per evitare di restare col cerino in mano. Poi con discrezione hanno iniziato a investire: secondo quanto emerso dalla ultime comunicazioni alla Consob relative alla movimentazione di partecipazioni rilevanti, la People’s Bank of China (ossia la banca centrale cinese) ha superato lo scorso 21 marzo la soglia del 2% in Eni ed Enel, arrivando per la precisione a detenere il 2,102% di Eni e il 2,071% di Enel. In entrambi i casi si tratta di titoli detenuti in “proprietà diretta” ossia non tramite fondi d’investimento o gestioni patrimoniali ma a seguito di acquisti effettuati dai tesorieri dell’istituto di Pechino.

La notizia secondo alcuni colleghi analisti italiani è da leggersi, dopo che già BlackRock, Vanguard, Invesco e altri celebri fondi Usa erano entrati chi col 5% o più, chi con quote poco sotto il 2%, nel capitale di istituti come Unicredit, Intesa Sanpaolo e Mps (i primi due), piuttosto che in nomi storici di Piazza Affari come Rcs (l’editore del Corriere della Sera, di cui Invesco è da una settimana azionista con oltre il 5% del capitale), come una conferma del forte ritorno di interesse da parte di investitori stranieri per il mercato azionario italiano, non a caso tornato sui massimi dal maggio del 2011 nonostante per l’economia italiana non si prospetti ancora un 2014 particolarmente esaltante (anzi: il Prodotto interno lordo dovrebbe crescere appena dello 0,6%, lo stesso tasso previsto per il Pil della Grecia che in compenso il prossimo anno dovrebbe staccarci nettamente crescendo del 2,9% contro il +1,1% che il Fondo monetario internazionale prevede per il Bel Paese).

Dopo la notizia gli analisti di Websim hanno confermato il proprio giudiziointeressante” su Enel con un target price di 4,5 euro e la raccomandazione “neutrale” su Eni con un prezzo obiettivo di 18 euro. Non esattamente titoli da strapparsi di mano, insomma ed anzi per gli amanti del trading di borsa sono sicuramente più interessanti i titoli delle principali banche italiane, che almeno fino a giugno, quando avranno portato a termine aumenti di capitale per almeno 8,55 miliardi di euro per essere certi di superare gli stress test della Bce, sembrano poter correre ancora in borsa. Tuttavia l’investimento della banca centrale cinese non ha l’aria di essere motivato unicamente dalla volontà di far fruttare una parte (peraltro infinitesima, di poco superiore a 2 miliardi di euro) delle proprie riserve (nel complesso superiori ai 4 mila miliardi di dollari, poco meno di 3 mila miliardi di euro).

Né sembra da intendersi come gesto d’aiuto (tardivo) per l’Italia, visto che in questi casi ci sarebbe stata almeno una “visita di cortesia” tra i governanti dei due paesi, mentre il primo viaggio europeo del presidente cinese Xi Jinping (che lunedì ha partecipato al vertice sul nucleare all’Aja per poi spostarsi a Parigi, a Berlino e poi a Bruxelles e domani tornerà a Pechino) non ha previsto alcuna tappa in Italia. Semmai a qualcuno l’interesse “esplicito” di Pechino per i due colossi italiani del petrolio e dell’energia sembra un segnale indirizzato al governo italiano, che ne detiene saldamente il controllo tramite le quote del Tesoro e di Cassa depositi e prestiti (con un 30,2% complessivo nel caso dell’Eni, ovvero un 31,2% per l’Enel) ma che potrebbero fare ulteriormente spazio a Pechino nell’ambito di una revisione della politica energetica italiana che si decidesse di attuare dopo le vicende dell’Ucraina per evitare di subire nuovamente i contraccolpi di una crisi geopolitica improvvisa come già accaduto con la Libia.

Quale potrebbe essere la “merce di scambio”? Non necessariamente una maggiore presenza nel capitale dei due ex monopolisti italiani, semmai qualche buon affare: Eni intende cedere entro il 2017 asset “non strategici” per 9 miliardi di euro (proprio oggi ha collocato il 7% della portoghese Galp incassando 702,4 milioni di euro), mentre Enel nel suo piano industriale 2013-2017 ha segnalato di voler procedere a cessioni per complessivi 6 miliardi di euro, di cui 1,5 miliardi già realizzate ed Exane Bnp Paribas si attende nel corso dell’anno arriveranno da questo fronte altri 3,5 miliardi di incassi (per essere poi concluse con ulteriori dismissioni per circa un miliardo nel 2015). Ma cosa cederanno nel concreto i due gruppi? L’amministratore delegato del cane a sei zampe, Paolo Scaroni, ha più volte fatto riferimento a “asset produttivi ormai meno interessanti”, in sostanza quote di partecipazione allo sfruttamento di giacimenti o partecipazioni in società come le stesse Saipem o Snam (anche se l’ipotesi di un prossimo matrimonio dell’una quanto dell’altra sembra svanita, almeno sino al rinnovo del Cda di Eni di maggio) e Pechino potrebbe essere interessata.

Già nel luglio dello scorso anno la compagnia statale China National Petroleum Corporation (Cnpc) aveva rilevato da Eni per 4,21 miliardi di dollari una quota di minoranza (il 20% per via indiretta) dei giacimenti Mamba in Mozambico (di cui Eni resta proprietaria al 50%), ora Scaroni sembra voler puntare anzitutto a una rinegoziazione dei contratti di approvvigionamento del gas con Mosca (appena sarà possibile) e ad una razionalizzazione della presenza nel settore della raffinazione che piace molto sempre ai russi, come prova il passaggio dell’impianto Isab di Siracusa dalla famiglia Garrone, proprietaria di Erg, alla Lukoil per 20 milioni già a fine 2013 e l’acquisizione per circa 180 milioni di euro della partecipazione pari al 20,989% in Saras da parte di Rosfnet lo scorso anno. Pechino potrebbe dunque voler rafforzare le sua presa sui giacimenti africani o (meno probabilmente) mettere un piede nel settore della raffinazione petrolifera in Italia in previsione di una ripresa dei consumi.

Per Enel, che a fine 2013 ha completato la cessione della rete gas al fondo F2i di Cassa depositi e prestiti e che è impegnata in un riequilibrio degli investimenti dai mercati maturi (su cui vengono ridotti) a quelli emergenti (dove invece stanno crescendo) dall’update del piano industriale al 2018 fornito da Fulvio Conti poche settimane fa sembra chiaro che ad essere cedute saranno centrali convenzionali sui mercati maturi per concentrarsi sugli impianti di energie rinnovabili, specie nei mercati emergenti, e nel settore delle distribuzione al dettaglio, sia sui mercati maturi sia su quelli emergenti. Insomma, meno centrali (salvo che nel nucleare in Slovacchia e nell’idroelettrico specie in Cile e Colombia) e più contatori: chissà che anche in questo caso Pechino non stia pensando di approfittare di qualche svendita (magari in occasione delle nuove privatizzazioni italiane) per rafforzare la sua presenza sullo scacchiere mondiale.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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