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Opinioni

Oltre a spread e rating: cosa insegna la crisi

Per molti la recessione europea ed italiana è alle spalle. Ma le tensioni in Ucraina consigliano di non abbassare la guardia e di riflettere su cosa ci abbia insegnato la crisi…
A cura di Luca Spoldi
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La crisi è alle spalle, proclamano da qualche tempo in qua un po’ tutti i centri statistici mondiali e finanche le agenzie di rating, di solito mai troppo tenere (Fitch ha appena confermato il rating sovrano italiano a “BBB+” portando da “negativo” a “neutro” l’outlook proprio grazie ai minori rischi sul fronte macroeconomico oltre che per quanto riguarda il settore creditizio). Ma qualcosa ancora non torna in un’Europa perennemente a metà del guado in cui le differenze strutturali tra le varie economie nazionali non si riescono ad appianare in assenza di una reale unione politica e non solo monetaria e della persistente anteposizione degli interessi nazionali (spesso malamente intesi e difesi, come insegna il caso Alitalia) ad un equilibrato sviluppo dell’intera eurozona. A complicare il quadro, oltre alle incertezze della politica europea e ai divergenti interessi di ciascuno dei paesi membri (e al loro interno dei differenti attori economici e politici), sono variabili esogene come le ricorrenti crisi geopolitiche o economiche che interessano paesi emergenti dall’Asia all’America Latina, dalla Ucraina alla Russia, con cui l’Europa ha da tempo corposi interscambi commerciali.

Si prenda l’Austria, “giardino di casa” della ricca e apparentemente potente Germania: solo ieri il ministro delle Finanze austriaco, Michael Spindelegger, ha dovuto ammettere che le cose non stanno affatto messe bene, che il debito pubblico, già salito dal 60,7% del Pil di fine 2008 al 74,5% a fine 2013 a causa in particolare degli oltre 9 miliardi di euro di aiuti di stato erogati in questi ultimi sei anni per evitare il fallimento di Hypo Group e Kommunalkredit (entrambe nazionalizzate dopo la crisi finanziaria mondiale provocata dal fallimento di Lehman Brothers), rischia a fine anno di salire al 79,2% del Prodotto interno lordo e non è escluso che possa sfondare il tetto dell’80%. Per scongiurarlo Spindelegger ha messo le mani avanti “non escludendo” una nuova manovra “correttiva” per contenere a fine anno il disavanzo di bilancio al 2,7% del Pil.

Una manovra, possono tirare il fiato i contribuenti austriaci (si fa per dire) che non sarà fatta di nuove tasse (vizietto piuttosto italiano), ha promesso il ministro, ma di tagli alla spesa pubblica. Non occorre essere un genio per capire che questa “ricetta” oltre ad avere effetti di breve periodo tristemente pro-ciclici (e dunque tendenzialmente depressivi in questo frangente), come hanno scoperto sulla propria pelle italiani, greci, spagnoli e portoghesi, rischia di indebolire ulteriormente un paese una volta “felix”, da sempre considerato la porta dell’Europa verso l’Est. La prova di forza in atto tra Ucraina e Mosca (che oggi ha alzato a sorpresa i tassi a una settimana sul rublo, in risposta al taglio del rating sovrano di un notch, “BBB” a “BBB-”, mantenendo un outlook “negativo” proprio a causa delle tensioni e delle possibilità di nuove sanzioni economiche che peggiorerebbero il già fragile quadro macroeconomico russo) rischia a questo punto di essere la classica goccia che fa traboccare il vaso.

Quel che è peggio, dall’Austria il “contagio” potrebbe estendersi a paesi confinanti come la Germania o la stessa Italia che, sia tramite le attività controllate in Austria, sia direttamente, hanno pesantemente investito sia nell’Est Europa sia in particolare in Russia. La storia umana è piena di “se” ed anche in questo caso ve ne sono molti: se non si fossero fatte crescere a dismisura poche grandi banche, che hanno concesso pochi grandi crediti a pochi grandi gruppi, forse la crisi finanziaria mondiale si sarebbe potuta evitare; se l’Austria non avesse puntato così tanto sull’Est Europa finanziando con le sue banche molti investimenti rivelatisi più che rischiosi forse oggi non sarebbe così impegnata nel tentativo di evitare il collasso del suo sistema creditizio a sei anni dall’esplosione della crisi finanziaria mondiale; se l’Italia avesse cercato una maggiore diversificazione e delle sue fonti energetiche e dei suoi investimenti finanziari (ad esempio attraverso il gruppo Unicredit che per diventare un gruppo di taglia europea ha provato a espandersi proprio in Germania e Austria attraverso l’acquisizione di HypoVereinsbank e della sua controllata Bank Austria Creditanstalt) forse non si troverebbe ora costretta a cercare una pericolosa inversione ad U (quasi) fuori tempo massimo.

Purtroppo i “se” possono farci riflettere sulle scelte da fare in futuro ma non possono cambiare il passato e pertanto il presente. Al momento occorre rendersi conto che far fallire le banche “sistemiche” italiane ed europee (impegnate nell'esame della Bce) non è un’opzione agevolmente perseguibile, perché il costo si scaricherebbe su contribuenti già provati da continue “manovre correttive”, specie nel caso italiano; che la crisi ucraina richiederà notevoli sforzi diplomatici visto che non si può pensare di “tagliare i ponti” con Mosca senza pagare un prezzo elevato (specie per l’Italia, ma anche per la Germania); che affidarci solo all’export e non anche a una ripresa sia pure a ritmi più blandi di queli pre-crisi della crescita interna significa legarci alle alterne fortune di paesi emergenti come Cina, Brasile, India o Russia che non necessariamente hanno i nostri stessi interessi sia in ambito economico sia, quel che è peggio, in ambito sociale e politico. Ciò detto sarebbe auspicabile che chi ci governa pro tempore smettesse di spacciare sogni e iniziasse a costruire, un mattone dopo l’altro, un ponte verso un futuro meno incerto, ripensando e concretamente sviluppando una politica energetica, una politica fiscale, una politica economica in grado di sostenere un tessuto produttivo che, piaccia o no, è fatto al 70% di piccole e medie imprese.

Pmi (anche nella forma “cool” delle startup) che si potrà certamente cercare di far evolvere e crescere, ma che non sono e non possono trasformarsi a breve in colossi internazionali. Mi raccontava un amico piccolo commerciante (ma la stessa considerazione avrebbe potuto farmela un piccolo industriale): “Questa crisi mi ha aperto gli occhi. Negli ultimi anni le banche provavano a crescere offrendo crediti consistenti a un numero ristretto di imprese, promettendo loro che avrebbero potuto crescere e competere con grandi gruppi nazionali o anche internazionali. Ora piuttosto che prendere 100 mila euro di debito per riempire un magazzino che poi farò fatica a svuotare se non ricorrendo a sconti aggressivi e cercando di non perdere neppure un singolo cliente, per quanto marginale, preferisco limitarmi a chiedere di un fido di qualche migliaia di euro, da rimborsare ogni mese, comprare meno merce, rinunciare a qualche cliente ma servirli meglio. E vivere meglio la mia vita e la mia attività, anche se non diventerò mai Zara o H&M”. Mi pare un discorso sensato, per non buttare via una lezione importante: le teorie, anche economiche, sono importanti, ma vanno sempre raccordate alla realtà e al momento storico. O si rischia di finire con l’essere l’errore statistico di un modello econometrico.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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