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Olimpiadi 2020: e Monti per fortuna disse no

Qualcuno sembra recriminare per “l’occasione perduta”, ma gli esemi di Italia ’90 e delle Olimpiadi invernali del 2006 dovrebbero insegnare che non sempre i benefici pareggiano i costi. Nel caso della Grecia poi…
A cura di Luca Spoldi
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no Olimpiadi

Questa volta il governo Monti ce l’ha fatta (per ora): nonostante le richieste giunte da quasi tutti i partiti politici italiani e il pressing esercitato fino all’ultimo dal sindaco di Roma stamane il governo italiano ha fortunatamente stoppato ogni candidatura di Roma come sede olimpica per il 2020. Nell’attuale situazione di crisi, ha spiegato Mario Monti, non si possono sottoscrivere garanzie che metterebbero a rischio i soldi dei contribuenti. Un modo neppure troppo velato per sottolineare come prima ancora degli incerti, incertissimi benefici eventuali, un evento come le Olimpiadi rischiano, specie in un paese come l’Italia attuale, di essere l’ennesima occasione di un “magna magna” per pochi “amici” e per amministratori locali e nazionali, a spese di tutti gli italiani sapientemente rimbambiti con roboanti dichiarazioni di “orgoglio patrio” e altre amenità del genere.

Eppure gli scandali e le polemiche legate ai mondiali di Italia ’90, per la quale solo per gli stadi (alcuni dei quali già abbattuti come il Delle Alpi di Torino) i contribuenti italiani videro gravare sul bilancio pubblico la colossale cifra di 1.248 miliardi di lire, circa il doppio di quanto preventivato, senza contare autentici scandali come l’albergo mai finito di Ponte Lambro a Milano o la stazione ferroviaria di Farneto a Roma (costata 15 miliardi e utilizzata solo per quattro giorni) o alle Olimpiadi invernali di Torino 2006 (costati 2 miliardi di euro complessivamente) avrebbero dovuto vaccinare ogni italiano dal tentare ulteriori esperimenti, ma tant’è, la memoria degli italiani, ottima quando si tratta di ricordarsi i concorrenti delle varie edizioni di reality show di ogni genere piuttosto che le ultime decine di titolari della formazione calcistica del cuore, tende a venire meno quando si tratta di ricordarsi chi ha causato disastri economici e chi ha beneficiato di questo o quell’evento “straordinario”.

Per la verità le Olimpiadi possono anche portare a dei benefici, per le ricadute sia in termini economici sia di visibilità che ne possono ricavare il paese ospitante e le singole località in cui si svolgono le gare. Ma molto dipende dalle condizioni economiche dei singoli stati ospitanti: già nel giugno del 2004 PricewaterhouseCoopers era arrivata alla conclusione che le olimpiadi di Atene di quell’anno sarebbero costate 10 miliardi di euro, con un impatto rilevante su un’economia ancora in gran parte rurale che “cresceva” dell’1,7% in termini di incrementi annui del Prodotto interno lordo (fin dagli anni Settanta). Per Atene quella dell’Olimpiade sembrò dunque l’occasione giusta per quella modernizzazione che avrebbe potuto portare il paese a pieno titolo in Europa (resta da capire, sia detto per inciso, perché mai la Grecia e lo stesso Portogallo vennero accettate non solo nell’Unione europea, su pressione dell’Italia, ma poi anche nell’Euro, pur presentando un andamento economico oltre che politico e sociale fortemente divergente da quello degli altri paesi dell’Eurozona, vero “detonatore a tempo” di quella che è poi stata la crisi del debito sovrano esplosa negli ultimi due anni).

L’occasione purtroppo non venne colta e oggi sappiamo com’è andata a finire: la spesa pubblica è schizzata in modo incontrollato riversandosi in investimenti a dir poco di dubbia utilità (salvo che per i gruppi economici e politici che più direttamente ne beneficiarono), la crescita del Pil pro capite è triplicata (da +1% a +3,21% annuo secondo quanto ricorda Francesco Daveri), le retribuzioni pubbliche e private spiccano il volo (mentre negli stessi anni in restano al palo, al confronto, in Germania e sono comunque in crescita più moderata Spagna e Italia). La crescita “pompata” dall’evento olimpico continua con dosi crescenti di debito e drena via via risorse dal paese verso il Nord Europa (Germania e non solo) sino a che una serie di eventi esterni (il collasso dei mutui subprime, poi il fallimento di Lehman Brothers, infine la grave recessione del 2008-2009) non rompono il giocattolo, inducono gli investitori ad alzare il premio per il rischio e a far partire un pesante e tuttora in corso “deleveraging” (ossia una riduzione forzata della leva finanziaria: in sostanza le banche non solo non vi finanziano più allegramente ma semmai vi chiedono di ridurre l’esposizione rimborsando parte dei prestiti ricevuti). A quel punto tutto precipita: le aziende più deboli falliscono o debbono essere salvate dagli stati, le banche che le hanno finanziate fanno la stessa fine, gli stessi emittenti sovrani improvvisamente non sembrano più così solidi e i titoli di stato anziché essere carta “a zero rischi” diventano asset “a rischio” di cui le banche tentano di liberarsi quanto più rapidamente possibile.

Il resto è storia di questi ultimi mesi e settimane, con continue dilazioni e rinvii di soluzioni che servono alle banche per continuare a ridurre le perdite potenziali o effettive, raccogliere capitali per rafforzare i propri indici patrimoniali, effettuare gradualmente svalutazioni peraltro massicce. Il Pil greco si avvita sempre più (il quarto trimestre del 2011 è crollato del 7% su base annualizzata), sotto il peso di misure “di austerity” che solo se si fossero fatte per tempo sotto forma di graduali riforme economiche e culturali non avrebbero affatto causato austerity ma semmai contribuito a rafforzare l’economia di Atene (ma probabilmente questo non era un obiettivo prioritario della Germania e degli altri “paesi virtuosi” del Nord Europa) e la folla, nella sua perfetta ignoranza economica ad Atene come a Roma, scende in piazza e rivendica una impossibile “fuga dalla realtà” e sogna un ritorno alla dracma che nella migliore delle ipotesi causerebbe l’immediato default dei titoli di stato, provocherebbe centinaia di migliaia di licenziamenti e riporterebbe le lancette dell’orologio a prima di quelle fatidiche Olimpiadi, con un’economia arretrata e marginale condannata a crescere a tassi sempre più modesti e distanti da quelli del “primo mondo” europeo. Non è tutta colpa dell’evento olimpico e l’Italia come spiegato ieri non è la Grecia, ovviamente, ma davvero qualcuno può in coscienza recriminare per il no del governo al finanziamento “a fondo perduto” di un simile carrozzone?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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