La crisi di Grecia ha ormai assunto a tutti gli effetti gli stereotipi di una telenovela, al punto che la successione di eventi appare immutata e prevedibile a investitori e mercati. Così la novità emersa dall’ennesimo vertice risolutivo (ho perso il conto di quanti sono stati in questi due anni) che ha portato peraltro ad un effettivo passo in avanti (il via libera a 130 miliardi di euro di nuovi aiuti europei che si sommano ai 35 miliardi ancora da erogare del primo piano della “troika” Ue-Bce-Fmi e l’ok al piano di ristrutturazione di circa 206 miliardi di euro di debito pubblico greco) consentendo in teoria ad Atene di tirare avanti fino almeno al 2014 (e non è poco certamente rispetto all’ipotesi di un default “disordinato” ossia in stile Argentina già a marzo) è stata dapprima accolta con cautela (per tutti i motivi più volte detti), poi di fatto archiviato come un “non cambia nulla” da parte delle agenzie di rating (la più lesta è stata Fitch che per non sbagliarsi ha tagliato il rating di Atene da “CCC” a “C”).
Gli investitori dal canto loro sembrano dividersi in due schiere: chi ha saputo per tempo alleggerire le posizioni (come pare il caso di Deutsche Bank il cui numero uno, Josef Hackermann, appare molto più conciliante nelle dichiarazioni di questi giorni di quanto non fosse mesi fa) ora sostiene che tutto sommato gli accordi (in particolare quello sul debito) non sono così malvagi e anzi dovrebbero registrare un’ampia adesione, mentre chi (come alcuni fondi hedge) ha sperato che si tutelassero maggiormente i diritti dei creditori (e ha provato ad acquistare titoli di stato sperando di portare a casa un guadagno) continua a ripetere che Atene “delenda est”, va distrutta, rasa al suolo possibilmente spargendo sale perché non risorga mai più dalle sue ceneri.
Nel mezzo la Germania, granitica nella sua convinzione che ognuno deve scontare le sue “colpe” su questa terra e su questi mercati non importa se si sarebbe potuto evitare la gran parte dei danni agendo in modo corale per tempo anziché ostinatamente richiedendo “espiazioni” e adesioni forzose e forzate a modelli di “virtù fiscale” che si basano su caratteristiche (in termini di efficienza e competitività oltre che di base di export) di cui l’economia greca non ha mai goduto e difficilmente godrà a breve. Una Germania che continua a dire “nein” a ogni ipotesi di aumentare le dotazioni del meccanismo permanente di stabilizzazione (l’Esm), come pure all’ipotesi che possa coesistere se non per pochi mesi con l’Efsf, come pure al lancio di Eurobond (nonostante che poi la Bce molto pragmaticamente abbia già di fatto mutualizzato il sostegno ad Atene e dunque il rischio ad esso connesso).
Commentava un analista: il quadro è noto, le cose che andrebbero fatte per superare questo stallo anche (come prova la lettera indirizzata da 12 premier europei al presidente Ue Barroso, ossia di fatto ad Angela Merkel e Nicolas Sarkozy), il problema è indicare delle soluzioni che operativamente consentano di fare quanto necessario superando veti e divieti posti finora dai vari attori di questa infinita telenovela.
Da parte mia resto perplesso di una cosa: se l’unico vero rimedio per superare la crisi del debito (greco ed europeo), lo si è detto in tutte le sedi e in ogni modo, è la crescita, allora perché non si fa come propone ad esempio Barack Obama in casa propria, riducendo le tasse sugli utili delle imprese manifatturiere, disboscando in parallelo la selva di agevolazioni fiscali che finora si sono dimostrate inutili nel sostenere la crescita (se non dei patrimoni individuali di poche migliaia di imprenditori, banchieri e manager) e semmai rimodulando e potenziando gli sgravi per chi investe, assume personale, produce beni e servizi sul territorio nazionale (e comunitario), investe in istruzione (individui, famiglie o imprese che siano) ed incentivando innovazione, ricerca e sviluppo e utilizzo di fonti energetiche rinnovabili?
Si dirà: sono provvedimenti la cui stesura e approvazione (ed effettiva entrata in vigore) richiede tempi lunghi prima che producano effetti tangibili, del tutto incompatibili coi tempi dei mercati. E’ vero, ma la soluzione attuale, tanto cara a Frau Merkel, non ha in questo senso molto di più da offrire, se non per qualche breve lasso di tempo (di fatto la “soluzione” concordata lunedì sposta il rischio di un default “disordinato” al 2014), nè rimuove il default “selettivo” come viene considerato l’accordo sul debito dalle agenzie di rating, a ragione, né evita ulteriori pesanti manovre correttive dopo le elezioni di aprile (anzi finisce con l’ampliarne probabilmente il peso), rischiando di affossare ancora di più l’andamento del Pil greco e rendendo irrealistiche le stesse ipotesi assunte alla base del nuovo piano di aiuti.
Ma allora non sarebbe meglio lasciar fallire la Grecia, che tra l’altro sta effettivamente rimettendosi sia pure a fatica e con notevole sofferenza? No, hanno finora risposto gli investitori che a volte sembrano ragionare come certi fanatici religiosi più che come operatori economici, perché il “rischio contagio” esploderebbe facendo subito fare la stessa fine al Portogallo, alla Spagna e all’Italia e se un fallimento (della Grecia) sarebbe tutto sommato sopportabile, altri tre (e quello italiano in particolare) metterebbero fine all’area dell’euro e in grave crisi l’intera economia mondiale.
Giusto, ma allora perché, di nuovo, non provare a far ripartire l’economia, proseguendo sulla strada del risanamento su tempi più distesi (approfittando il più possibile dell’aiuto offerto almeno in termini di liquidità dalle banche centrali come la Bce), dando priorità a vere liberalizzazioni e riforme in grado di favorire gli investimenti (in produzioni, servizi e capitale umano)? Liberalizzazioni e investimenti che porterebbero gradualmente a migliori ritorni per gli investitori che avessero dato fiducia non solo alla Grecia ma alla capacità dell’Europa di trasformarsi da un immenso carrozzone a una vera area di sviluppo mondiale. Se a soffrirne a breve sarebbero lobbies e caste di ogni genere e forza, in compenso da tale “rivoluzione copernicana” e trarrebbero a medio termine tutti giovamento, dalla Grecia all’Europa, dagli Stati Uniti al Giappone ai paesi emergenti.
Quindi cosa c’è che non va e fa dire, finora a ragione, all’economista britannico “naturalizzato” catalano (vive a Barcellona da oltre 15 anni) Edward Hugh che da questa situazione, semplicemente, non c’è uscita ed è per questo che la “telenovela” greca è destinata ad andare avanti ancora per anni, non per mesi? Nel frattempo in tutto il Sud Europa (Italia compresa) milioni di persone cercano lavoro e non lo trovano, perché non vi sono più investitori disposti a fidarsi e ad investire. Se la situazione non cambierà prepariamoci a rivedere importanti flussi migratori lasciare il vecchio continente per cercare fortuna in Asia e in America: non so a voi ma a me questa ipotesi fa più effetto delle perdite potenziali sui titoli di stato greci, che in fin dei conti rappresentano davvero una piccola percentuale degli asset detenuti dagli investitori di tutto il mondo. Se solo ci fosse un modo di garantire ad essi che non esiste rischio contagio non staremmo al punto in cui stiamo.