Alexis Tsipras deve amare giocare a poker: a meno di 24 ore dalla convocazione di un meeting straordinario dell’Eurogruppo che riunirà i ministri delle Finanze di Eurolandia per discutere della crisi greca, il leader di Siryza si prepara a offrire un compromesso. Il suo ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, esperto e non sarà un caso di teoria dei giochi, dopo aver già rassicurato ieri sul fatto che la Grecia intende comunque portare a compimento almeno il 70% delle riforme promesse nell’ambito degli accordi di bailout (tra cui la privatizzazione del porto del Pireo, “sospesa” senza che fosse mai veramente partita solo una decina di giorni or sono), chiederà secondo l’agenzia Bloomberg di poter aumentare di 8 miliardi di euro lo stock di titoli del Tesoro a breve termine che la Grecia è autorizzata a emettere nell’ambito degli accordi di bailout oltre ad uno “sconto” alla Bce, che potrebbe (secondo l’auspicio di Atene) rinunciare a 1,9 miliardi di euro di utile realizzato sui titoli greci già in portafoglio a Eurotower.
Guarda caso si tratterebbe proprio di quei 10 miliardi necessari a ripagare i finanziamenti in scadenza a fine febbraio, in attesa che vengano raggiunti nuovi accordi sul debito greco (240 miliardi di euro nei confronti della “troika” Ue-Bce-Fmi, a fronte di 320 miliardi, pari al 175%, di debito pubblico complessivo) entro maggio. Nel frattempo Matthieu Pigasse, a capo di Lazard Financial Advisory, che il governo di Atene ha assoldato come adviser sul debito pubblico e la gestione delle problematiche fiscali, ha fatto sapere in un’intervista radiofonica a France Inter che sarebbe necessario riuscire a cancellare almeno 100 miliardi di euro di debito se si vuole portare al 120% il rapporto debito/Pil greco entro il 2020 e rendere così il debito stesso più “sostenibile”. Della serie: se vi piacciono le “mission impossibile”, proponete voi un compromesso accettabile per tutti che non comporti un formale “haircut” del debito contratto nei confronti della troika (sugli 80 miliardi restanti di debito rappresentato da titoli di stato gli investitori hanno già ampiamente dato con la ristrutturazione del 2012).
Dopo un paio di “punture di spillo” di Varoufakis, che aveva lasciato intendere (salvo smentire ex post) che se Atene poteva essere un problema, il vero elefante nella cristalleria resta l’Italia, molti media si sono chiesti quanto l’Italia rischi, arrivando alla ragionevolmente rassicurante considerazione che l’ex “bel paese” rischia molto meno di quattro anni or sono. Se ci si limita alle banche, dai circa 6 miliardi di esposizione del 2010 si era già scesi a fine settembre a circa 800 milioni di euro secondo dati riportati da Silvia Merler. Peggio di noi stavano messi Germania (10,203 miliardi di esposizione bancaria), Francia (1,368 miliardi) e Olanda (923 milioni). Ma se possiamo tirare un mezzo sospiro di sollievo sulla Grecia, sperando che l’accordo si trovi, proprio sulle banche restano puntati i riflettori perché, piaccia o non piaccia,se non si ristrutturerà il settore creditizio è illusorio sperare che l’economia tricolore possa ripartire.
Di quali mali soffrono le banche nostrane? Come detto più volte patiscono la crisi da domanda, figlia almeno in parte della stessa “cura letale” voluta dalla Germania per i paesi del Sud Europa. Crisi che ha contribuito a far esplodere i crediti “non performing” che secondo gli ultimi dati di Banca d’Italia a dicembre risultavano in crescita del 15,2% su base annua (dal 18,4% di fine novembre). In particolare secondo l’Abi le sofferenze lorde a novembre erano pari ad oltre 181 miliardi di euro, pari al 9,5% dei quasi 1.821 miliardi di prestiti complessivi (a fronte di una raccolta da clientela di 1.701 miliardi). I tempi di smobilizzo di tali crediti “problematici” sono saliti dai meno di 4 anni necessari in media prima dell’esplosione della crisi del debito sovrano ad oltre 6 anni e a questi ritmi si prevede che il picco sarà raggiunto solo nel 2019 per poi iniziare a calare. Troppo tempo, decisamente, ed ecco che anche il ministro Pier Carlo Padoan, prima dell'inizio dei lavori del G20 di Instanbul, parlando delle misure che si pensa di adottare per risolvere il problema, pur non citando mai direttamente il termine “bad bank” di fatto fa capire che si sta studiando come farla.
Sarà verosimilmente “sistemica”, con una qualche garanzia pubblica, ma si dovrà studiare con la Ue la formula migliore per evitare che le eventuali perdite si traducano in un ulteriore aumento del debito pubblico. Non solo: alcuni banchieri come Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, hanno già precisato di essere eventualmente interessati a parteciparvi solo se offrirà prospettive di “un recupero significativo” dei crediti in oggetto, altrimenti niente da fare. “Siamo molto bravi a gestire i nostri “bad loan” da soli, abbiamo una forte copertura e vediamo una significativa ripresa del settore immobiliare nel 2015 e per me è importante aspettare e cogliere questa ripresa” ha spiegato oggi il banchiere presentando i risultati dell’esercizio 2014 del gruppo (1,251 miliardi di utile netto contabile, ripresa degli interessi netti, pari a 8.374 milioni, +3,3% sul 2013, commissioni nette salite a 6.775 milioni, +10,5%, sui massimi dal 2007, indici patrimoniali in ulteriore rafforzamento).
Perché alcune banche (e l’Abi) sperano nell’intervento della “mano pubblica” se altre non sono interessate? Perché il valore di realizzo dei crediti in questione, se ceduti sul mercato (cosa in teoria possibile in ogni momento senza dover coinvolgere lo stato e dunque senza dover far correre rischi di sorta ai contribuenti), è verosimilmente di molto inferiore ai valori a cui gli stessi restano iscritti nei bilanci, nonostante tutti gli accantonamenti e svalutazioni a cui si è proceduto in questi anni. Cosa succederebbe se alla fine la “bad bank” saltasse e ciascuna banca dovesse fare di necessità virtù rivolgendosi al mercato? Che alcune come Intesa Sanpaolo, probabilmente, non avrebbero eccessivi problemi (ma anche no, visto che la stessa Intesa Sanpaolo insieme ad Unicredit sta provando da mesi ad accelerare la dismissione di parte dei propri crediti problematici senza grandi risultati), altre avrebbero qualche problemino maggiore (un nome a caso: Mps, coi suoi 43,3 miliardi di crediti problematici a fine settembre).
Tra queste vi sarebbero poi alcune come Banca Carige e la stessa Mps (per la quale oggi il Sole24Ore è tornato a parlare di “rinnovato interesse” da parte degli hedge fund esteri) che rischierebbero di dover nuovamente ricorrere ad aumenti di capitali (o farli per importi superiori a quanto finora atteso, come nel caso della banca senese). E che male c’è, dirà qualcuno? Assolutamente nessuno, dal punto di vista del mercato e dell’economia nazionale, ma chiaramente il prezzo è il rischio di una perdita del controllo da parte degli attuali azionisti. Che in Italia storicamente hanno sempre pagato molto poco per mantenere la loro presa su banche (e imprese) e che adesso sperano di riuscire ad avere qualche ultimo appiglio da norme come il voto plurimo che il governo sembra poter concedere loro, piuttosto che nell'intervento di qualche “cavaliere bianco” che approfitti magari della prossima riforma del settore del credito popolare per lanciare operazioni di aggregazione tra banche italiane chiudendo la porta in faccia ai concorrenti esteri. Effettivamente se Atene piange, Roma (e Siena) non può certamente ridere troppo.