Il possibile compromesso tra tagli al budget federale in cambio di un innalzamento del tetto all’indebitamento pubblico (fissato pari a 16.699 miliardi di dollari, cifra che dovrebbe essere raggiunta, secondo le indicazioni fornite dal Segretario al Tesoro Jacob Lew entro domani sera) sembra a portata di mano da qualche giorno, ma di fatto non arriva. Da un lato, infatti, l’amministrazione Obama pur volendo porre fine al government shutdown che dura ormai da 15 giorni (e tiene a casa tuttora 450 mila dipendenti pubblici senza stipendio, sottraendo 160 milioni di dollari al giorno al Pil) non intende smantellare la riforma sanitaria (“Obamacare”) da sempre obiettivo dell’ala estremista del partito Repubblicano rappresentata dagli esponenti del cosiddetto “Tea Party”, dall’altra lo stesso leader repubblicano alla Camera, John Boehner, non sembra in grado di emarginare i rappresentanti del suo partito più ostili all’accordo, tanto che da qualche giorno si confrontano, senza successo, almeno due bozze di intesa, una promossa dal Senato (a maggioranza Democratica), l’altra dalla Camera dei deputati (controllata dai Repubblicani), senza che si riesca a unificare le due proposte in un unico testo.
Che i mercati siano nervosi è evidente, ma come sempre sarebbe meglio fare chiarezza: gli Stati Uniti non rischiano di fare default domattina, perché il Tesoro può decidere di sospendere altri pagamenti prima che quello degli interessi sul debito pubblico e perché Barack Obama in extrema ratio ha il potere di alzare d’imperio il tetto all’indebitamento. Come già notava il collega Alessandro Fugnoli la scorsa settimana esistono numerosi modi per rinviare il default come ben sanno molti stati al mondo. Ma che gli investitori siano nervosi è evidente e del tutto razionale: domani, infatti, scadono 120 miliardi di “Treasury bill” (T-bill) a un anno, sui quali finora gli Usa non hanno praticamente pagato alcun interesse (oscillavano sul mercato secondario, fino al 26 settembre, ad un prezzo sopra la pari che sottintendeva un rendimento reale negativo dello 0,1% per chi parcheggiava su tali titoli il proprio denaro).
Una cifra impegnativa, specie considerando che il Tesoro Usa domani non dovrebbe avere in cassa più di 30 miliardi di dollari, ma visto che scadendo i titoli il debito si riduce automaticamente di altrettanto il rinnovo è garantito e quasi indolore, dove il “quasi” è legato al fatto che nel frattempo il prezzo dei titoli è calato e il rendimento reale che essi offrono è pari allo 0,32%, che dunque rischia di essere il tasso che il Tesoro dovrebbe rassegnarsi a pagare per collocare altrettanti 120 miliardi di nuovi T-bill. In realtà una parte più o meno ampia di questi titoli potrebbe essere acquistata dalla Federal Reserve (che ha sospeso per ora ogni strategia di interruzione dei suoi acquisti di bond sul mercato e dunque continua a comprare fino a 85 miliardi di bond al mese), con un effetto calmierante sui tassi.
Il problema è che tra il 18 ottobre e il 15 novembre scadono complessivamente altri 441 miliardi di dollari di titoli di varia durata, pari all’incirca all’intero debito pubblico greco prima del “default tecnico” del febbraio dello scorso anno che, giusto per ricordarlo, portò alla rinegoziazione (ossia al mancato rimborso) del debito stesso tramite uno swap reso obbligatorio che ha tagliato del 75%, il valore reale del debito (ovvero del 53,5% circa il suo valore nominale) in mano ai bondholder privati (ossia banche, fondi pensioni e fondi d’investimento sia greci sia internazionali). Gli Usa, insomma, non falliranno ma potrebbero registrarsi ulteriori perdite sui titoli di stato americani, con conseguente rialzo dei rendimenti, mentre ogni sia pur minima incertezza (ad esempio lo slittamento del pagamento anche solo di una cedola sul debito pubblico) porterebbe le agenzie di rating a tagliare nuovamente il merito di credito sovrano statunitense (e infatti dopo che Standard & Poor’s, che già aveva tagliato il rating mesi fa, ha dichiarato di non pensare a ulteriori penalizzaioni, Fitch, pur confermando la tripla A, ha emesso un “outlook negativo” che indica come sia possibile in futuro una revisione al ribasso del rating stesso).
In questo caso il rischio è di un avvitamento “in stile italiano” del rapporto debito (crescente) sul Pil e dunque la necessità di una correzione dei conti pubblici più ampia e più dolorosa del previsto. Sarebbero a rischio non solo l’Obamacare, ma anche le tasse, che negli Usa a differenza che in Italia sono sui minimi storici dopo le riforme volute dal predecessore di Obama, il Repubblicano George W. Bush. E questo potrebbe essere davvero un problema, perché come già notava l’Ocse nel suo ultimo World Factbook, gli Usa a fine 2011 avevano già un rapporto debito/Pil superiore al 103%, avendo così fatto il proprio ingresso nel “club” dei paesi con un debito pubblico superiore al proprio Prodotto interno lordo nel quale vi sono anche l’Italia (col 126% abbondante a fine 2010, ma probabilmente oltre il 130% a fine di quest’anno), il Belgio (102% superato a fine 2011), il Canada (oltre il 106% nel 2011), la Grecia (che danza ancora attorno al 100% nonostante il bailout e i due programmi di aiuti Ue-Fmi-Bce, tanto che non si esclude per l’anno prossimo un terzo programma di “aiuti”, si spera meno devastante dei primi due) e il Giappone.
Il Giappone è un caso a se, visto che aveva già a fine 2010 toccato il 210% di debito/Pil sempre secondo l’Ocse (ma ormai dovremmo essere attorno al 220%). Per questo da tempo il premier Shinzo Abe sta cercando disperatamente di far ripartire l’economia così da far risalire il denominatore del rapporto fintanto che i tassi sul debito sono bassi (si va da tassi pari allo 0,08% sui bond a 2 anni allo 0,64% per i decennali, sino all’1,65% per i titoli a trent’anni). Che ci riesca davvero e non sia tutto un bluff resta molto dubbio ma intanto i mercati sembrano preferire i titoli del sol levante a quelli statunitensi e ancor più a quelli italiani (che sul mercato secondario offrono dall’1% circa dei Bot a 12 mesi a poco meno del 4,50% per i Btp a 30 anni). Il perché è in parte spiegato da motivi “storici” (il debito pubblico giapponese è in gran parte in mano a investitori domestici, il Giappone ha una lunga storia di importanti avanzi commerciali col resto del mondo, il tasso di risparmio è elevato), in parte semplicemente non ha una motivazione razionale, tanto che secondo il presidente di Goldman Sachs Asset Management, Jim O’Neill, entro un paio d’anni i tassi sui bond decennali giapponesi potrebbero salire sino al 3,5%, mettendo seriamente nei guai Tokyo.
Morale della favola: gli Usa non falliranno e probabilmente non fallirà neppure il Giappone. Ma se non inizieranno a disinnescare le bombe a orologeria nascoste nelle pieghe dei rispettivi conti pubblici, il “botto” rischia di far molto male a tutti quanti e gli investitori lo sanno benissimo, pur essendo abituati al rischio e preferendo per ora vedere il bicchiere mezzo pieno. Da parte mia posso solo sperare che non stiamo sopravvalutando, tutti quanti, la capacità di una classe politica (ed economica) che in tutto il mondo sembra sempre meno in grado di affrontare i problemi reali (dalla crescita economica alla distribuzione della ricchezza passando per una nuova cultura del fare e del condividere) e sempre più propensa a “prendere tempo” in attesa che qualche miracolo risolve i problemi senza eccessivi affanni e costi (non solo elettorali). Speriamo bene.