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Mussari lascia l’Abi tra polemiche

Giuseppe Mussari lascia la presidenza dell’Abi per non coinvolgerla in “polemiche” che riguardano il periodo in cui era a capo di Mps. Ma i problemi dell’economia italiana vanno ben oltre i guai della banca senese…
A cura di Luca Spoldi
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Assemblea ABI

Giuseppe Mussari passa la mano: il cinquantenne presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi), già ai vertici di Fondazione Montepaschi (dal 2000 al 2006) e di Mps (dal 2006 al 2011), che sotto la sua guida acquisì nel 2007 dal Banco Santander la Banca Antonveneta per 10,3 miliardi di euro (somma giudicata subito spropositata visto che la stessa banca spagnola l’aveva pochi mesi prima rilevata da Abn Amro per 6,6 miliardi) per poi svalutare integralmente il relativo avviamento (pari a 6,47 miliardi nel bilancio di Mps, oltre agli 1,38 miliardi segnati in quello della stessa Antonveneta), ha annunciato ieri le proprie dimissioni per non coinvolgere l’associazione in “polemiche che mi riguardano”. Le polemiche riguardano in verità un’ampia serie di operazioni che Mps ha contabilizzato durante il regno di Mussari, “promosso per essere rimosso” come si usa fare in Italia anche grazie al sostegno (nel 2010) di colui che l’avrebbe sostituito in Rocca Salimbeni e che all’epoca era ancora ai vertici di UniCredit, Alessandro Profumo.

Operazioni che spaziano dalla costosa acquisizione di Antonveneta a una serie di finanziamenti a gruppi industriali e immobiliari poi finiti in crisi, a quello per l’ampiamento dell’aeroporto di Ampugnano, poi messo in liquidazione, fino a una serie di operazioni su derivati con controparti come Deutsche Bank, Goldman Sachs o Nomura, stipulati a partire dal 2007 e tuttora in portafoglio, che rischiano di diventare la classica “bomba” nascosta tra le pieghe del bilancio dell’istituto, già tenuto d’occhio dall’Eba a causa della debolezza degli indici di patrimonializzazione della banca, che ha già aumentato il capitale sociale di 5 miliardi nel 2008 e di altri 2 miliardi nel 2011 e che dovrebbe ora tornare a chiedere soldi ai soci (entro i prossimi 5 anni, ma l’operazione potrebbe rivelarsi necessaria molto prima dello scadere dei termini) per 4,5 miliardi di euro in vista del rimborso dei 3,9 miliardi di euro prestati dal Tesoro attraverso i “Monti bond”, comprensivi di interessi. Sfortuna (ci può stare), incompetenza (sarebbe grava ma anche questa non si può escludere) o mala gestione (nel qual caso andrebbero valutate eventuali azioni risarcitorie nei confronti di chi avesse autorizzato tali operazioni)?

A questo punto più oltre alla ricostruzione precisa di come si sono svolti i fatti in passato sarà interessante capire se il futuro aumento di capitale comporterà l’ingresso del gruppo nell’orbita di qualche concorrente (italiano od estero) o se sarà di fatto l’anticamera di una nazionalizzazione pro-tempore dell’istituto, visto che la Fondazione, scesa ormai al 34,9% del capitale, non sembra avere la forza di sottoscrivere integralmente la sua quota e anche le “mani amiche” (Axa, Unicoop Firenze, Aleotti, Gorgoni) titolari di un altro 15% di capitale non è detto siano entusiaste di sottoscrivere. Sarà anche interessante capire (già da metà febbraio il Cda della banca dovrebbe esaminare le risultanze delle analisi interne effettuate sulle varie operazioni Santorini, Alexandria e simili, per poi decidere in merito agli “eventuali costi di chiusura delle operazioni in oggetto, qualora la banca ritenga conveniente tale chiusura nell’esclusivo interesse suoi e dei suoi azionisti” come comunicato ieri) quali siano effettivamente le perdite potenziali che restano in bilancio o, per dirla in modo diverso, che le operazioni in derivati hanno in qualche modo consentito di traslare in avanti evitando di chiudere gli ultimi esercizi in modo ancora più negativo.

Di certo per Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, attuali presidente  e amministratore delegato di Rocca Salimbeni, impegnati nel lavoro di ridefinizione del perimetro strategico di attività del gruppo, dismissione di attività non più “core”, pulizia dei bilanci e ridefinizione del modello di business della banca (inclusa la revisione dei contratti di lavoro e dunque del costo del medesimo), il lavoro non mancherà nelle prossime settimane e mesi. Ma se Siena piange, nessun’altra parte d’Italia sembra poter ridere. Se date un’occhiata alla rassegna stampa di stamane l’economia campeggia fin dalle prime pagine di tutti i quotidiani e telegiornali, ma nel  modo peggiore. Si parla dell’inchiesta sulle tangenti Enav che ha coinvolto gli ex vertici del gruppo Finmeccanica, si parla del fallimento di Deiulemar e del sequestro conservativo di 1,25 miliardi di euro di beni mobili e immobili degli armatori coinvolti nel fallimento della compagnia di navigazione il cui crack ha coinvolto non meno di 13 mila risparmiatori che avevano sottoscritto obbligazioni societarie divenute poi cartaccia per almeno 720 milioni di euro, attratti da tassi d’interesse leggermente più alti di quelli normalmente garantiti da titoli di stato e obbligazioni bancarie (il sospetto è che si sia trattato di un gigantesco schema Ponzi), si parla di nuove indagini circa le “spese allegre” di consiglieri regionali (questa volta dopo il Lazio, la Lombardia, il Piemonte e la Campania è toccato alla Liguria).

L’elenco potrebbe continuare ma non servirebbe: che l’economia italiana, in profonda recessione a causa di una ricetta dolorosa somministrata nei tempi e nelle dosi sbagliate sotto pressione dell’egemone europeo (la Germania che ancora ieri è riuscita a far eleggere un “falco” ai vertici dell’Eurogruppo, quasi a ribadire che non vi sono speranze di un allentamento della repressione fiscale europea almeno a breve termine), sia invischiata ormai a livelli soffocanti da un intreccio di burocrazia, malaffare, incapacità di investire sulle competenze di cui pure il paese disporrebbe, corruzione e tutela esclusiva di interessi corporativi che garantiscono chi “è dentro” ai danni di chi “resta fuori” è palese. Che il sistema stia crollando sotto il suo stesso peso altrettanto, visto che lo scorso anno il saldo negativo tra nuove imprese e imprese chiuse ha superato quota 100 mila, il reddito disponibile è crollato ai livelli del 1986, a 16.955 euro a testa, i consumi sono ridiscesi al livello del 1998, a 15.695 euro a testa (mentre il risparmio si è quasi azzerato e 8 milioni di italiani sono finiti sotto la soglia della povertà), la disoccupazione è in costante crescita. Con in più la “bomba esodati” che resta lì, con 150 mila persone ancora senza copertura. Resta solo da capire cosa potrà fare chiunque sarà chiamato a formare il governo dopo le elezioni di fine febbraio e chi sarà chiamato a pagare i costi relativi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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