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Mps, tutto da rifare: l’aumento sale da 5 ad almeno 8,8 miliardi di euro

Mps, l’aumento di capitale dovrà servire a raggiungere una solidità patrimoniale non inferiore a quella chiesta a suo tempo alle banche greche per il via libera al loro salvataggio pubblico. Questo significa alzare da 5 ad almeno 8,8 miliardi i capitali da iniettare, di cui almeno 6,4 miliardi a carico del Tesoro che si ritroverebbe così socio al 72%. Da rivedere anche la procedura per cedere i 27,7 miliardi di euro di sofferenze lorde…
A cura di Luca Spoldi
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Vi ricordate la barzelletta: “le banche italiane sono più forti e usciranno dalla crisi meglio delle altre”? Diradatisi i fumi dell’alcol dei veglioni di Natale, gli investitori italiani hanno appena scoperto che il salvataggio pubblico di Mps (il cui titolo resta sospeso in borsa finché non saranno emessi nuove azioni, dato che il valore dei “vecchi” titoli è stato azzerato) può essere denominato in vari modi, ma la sostanza non cambia: si tratta di una nazionalizzazione e come tale è autorizzata sotto condizioni.

La prima condizione, fissata dalla Bce, è che a questo punto la solidità patrimoniale sia in linea almeno con quella imposta alle banche greche quando si trovarono in un’analoga situazione pochi anni or sono. Dunque anche Mps dovrà avere un coefficiente Core equity Tier 1 (Cet1 ratio) non inferiore all’8% nel caso dello scenario avverso tra quelli elaborati nei test condotti dalle principali banche europee lo scorso autunno.

Un livello importante ma non così impensabile, visto che salvo Unicredit, che ha poi deciso di aumentare di 13 miliardi di euro il capitale, per portare al 75% il livello di copertura delle sofferenze e poter così avviare una cessione in due tranche di 17,7 miliardi di Npl (che saranno ceduti dunque attorno al 25% del loro valore lordo di libro), tutti gli altri istituti italiani esaminati avevano registrato livelli del coefficiente in questione superiori anche nell’ipotesi avversa. Unicredit aveva infatti ottenuto un Cet1 del 7,1%, Intesa Sanpaolo del 10,2%, Banco Popolare (che fondendosi dal primo gennaio prossimo con Bpm si rafforzerà ulteriormente) del 9%, Ubi Banca (molto attenta a non assumersi troppi oneri nel salvataggio di tre delle quattro “good bank”) dell’8,8%.

Secondo i primi calcoli degli analisti di Websim, alzare da 5 a 8,8 miliardi di euro l’aumento di capitale, come occorrerà fare per rispettare le richieste della Bce, ipotizzando che il “burden sharing” continui a pesare solo sui detentori dei bond subordinati (convertiti al 75% del loro valore nominale nel caso dei titoli lower tier 1, al 100% nel caso dei titoli lower tier 2, senza che questo significhi in alcun modo poter con certezza tutelare i “piccoli risparmiatori”, visto che trattandosi di titoli al portatore scambiati in borsa non c’è certezza su chi li abbia in mano e quando e a che prezzo li abbia acquistati) per circa 2,4 miliardi, vorrebbe dire prevedere un intervento attorno ai 6,4 miliardi a carico del Tesoro.

Sottoscrivere 6,4 miliardi degli 8,8 miliardi di aumento di capitale significa veder salire la partecipazione del Tesoro (il valore del precedente 4% essendosi azzerato come per tutti gli altri azionisti esistenti) al 72%-73% circa del capitale post-ricapitalizzazione. Si tratta dunque, come già detto, di una ri-nazionalizzazione a tutti gli effetti che scarica, si spera solo temporaneamente, il peso più consistente del salvataggio sulle spalle dei contribuenti, ottenendo l’esatto opposto di quanto ci si era proposti di fare con la norma sui bail-in, nata e pensata per tutelare i contribuenti comunitari da nuovi salvataggi pubblici di soggetti privati, ma tant’è: in Italia invocare l’eccezionalità della situazione per non seguire le regole ordinarie è un’abitudine dura a morire.

Cosa succederà adesso? Nessuno lo sa con certezza, tanto che gli analisti (ad esempio quelli di Banca Imi, gruppo Intesa Sanpaolo) stanno precauzionalmente sospendendo i propri rating e giudizi sul titolo in attesa di poter valutare l’evolversi della situazione. Al di là dei dubbi industriali (occorrerà chiudere altre filiali? Dovrà essere rivisto l'accordo di bancassurance con Axa? etc) resta infatti il grosso punto interrogativo: visto che tutta la vicenda è nata al fine di consentire la dismissione di una montagna di crediti in sofferenza (27,7 miliardi su 40 miliardi di crediti deteriorati lordi) e visto che questo tipo di asset non raggiunte, sul mercato, un valore attuale del 33% come si è cercato di far passare per cederlo “spintaneamente” al fondo Atlante, nel quale con fatica sono stati raccolti una manciata di miliardi di versamenti da parte delle banche sane, si dovrà ripensare tale parte dell’operazione.

Logica vorrebbe che anziché cederle in blocco Mps provasse a questo punto (non avendo neppure più l’assillo della scadenza del 31 dicembre) a suddividerle in due o più pacchetti, da cedere a più intermediari che potrebbero poi procedere ad emettere in più tranche una serie di cartolarizzazioni esattamente come ha preferito fare Unicredit (che di miliardi ne deve cedere “solo” 17,7 e partiva da un livello di accantonamenti per perdite su crediti più elevato rispetto a Mps).

In alternativa si potrebbe procedere, come sta tentando di fare Banca Carige, alla creazione di portafogli non solo di sofferenze ma contenenti anche una percentuale di incagli e/o inadempienze probabili, così da alzare il valore dell’asset ceduto e mantenere una minima esposizione alle diverse classi di Npl in seno al bilancio di Mps (che, ricordiamo, è una banca in utile a livello operativo e se azzerasse completamente la detenzione di asset a rischio finirebbe col veder ridotta ulteriormente la propria redditività).

C’è naturalmente da capire se Marco Morelli e il top management attuale di Mps siano adatti a gestire questa nuova fase, che non vedrà l’intervento di Jp Morgan e Mediobanca, rimaste a bocca asciutta dopo il fallimento del “loro” piano di ricapitalizzazione. Sullo sfondo il fondo Atlante potrebbe approfittare del mutato scenario che di fatto dovrebbe aver annullato l’impegno a sottoscrivere una parte della “vecchia” ipotesi di cartolarizzazione e procedere così alla ricapitalizzazione di BpVi e Veneto Banca ed alla cartolarizzazione dei loro Npl, oltre che a intervenire per organizzare la cartolarizzazione degli Npl delle “good bank”.

Viste le cifre in gioco non sarebbe comunque un impegno di poco conto e consentirebbe di mettere ulteriormente in sicurezza il sistema creditizio nazionale, aumentando così anche la possibilità per lo stato di tornare a cedere nei prossimi anni la maggioranza di Mps. Superare la crisi è possibile ed è una questione di volontà politica prima ancora che di capacità manageriale: se questa fase consentisse di mettere i semi per un rinnovamento del settore da troppo tempo rinviato, la crisi di Mps non sarà stata vana. Altrimenti si saranno sprecati 20 miliardi di euro che i contribuenti italiani potrebbero trovarsi presto o tardi a rifondere (si ipotizza una patrimoniale, ma non è detto che sia necessaria, avendo il governo Renzi via via irrigidito il bilancio italiano con una serie di “bonus” del costo di decine di miliardi di euro).

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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