Mps continua il suo “volo” a Piazza Affari e col +22,28% di questa sera torna a 34,7 centesimi di euro per azione. Rispetto ai 17,23 centesimi segnati lo scorso 14 ottobre il titolo è praticamente raddoppiato (+97,33%), senza che la Consob, solerte nel vietare le vendite allo scoperto nel timore che la “speculazione” ribassista entrasse in azione, abbia ritenuto minimamente il caso di accendere un faro sulla corsa del titolo, che avviene mentre sui mercati si diffondono le voci più disparate sull’aumento di capitale e sul piano industriale e di salvataggio che oggi il Cda ha approvato e che domani sarà ufficialmente presentato.
Intanto la capitalizzazione è risalita sopra la soglia psicologica del miliardo di euro, mentre anche le quotazioni dei bond subordinati (che solo un paio di settimane fa erano sembrati a “rischio bail-in”) continuano a recuperare terreno, col bond scadenza settembre 2020 (cedola al 5,6%) risalito a 74,50, pari ad un rendimento effettivo a scadenza del 14,68%. A ravvivare, se mai ce ne fosse stato bisogno, la corsa di Mps oggi ci ha pensato la voce che vuole anche il gruppo Unipol pronto a gettarsi nella mischia del “risiko” bancario in corso in Italia, alternativamente nel ruolo di nuovo socio “forte” di Siena oppure di “collante” di un’associazione tra Bper, alla vigilia di trasformarsi in Spa, e Credito Valtellinese (o in subordine Banca popolare Sondrio).
Nel primo caso la partecipazione di Unipol all’aumento di Mps potrebbe tradursi in un conferimento di Unipol Banca, su cui gravano peraltro uno stock di crediti deteriorati (Npl) che andrebbero precedentemente scorporati per non far rientrare dalla finestra ciò che con fatica si sta tentando di far uscire dalla porta. Secondo gli analisti di Equita Sim (di cui Alessandro Profumo, che di Mps dovrebbe avere una buona conoscenza, è azionista di riferimento e presidente) il rischio principale di una simile operazione consisterebbe nel fatto che a fronte della soluzione dei problemi di Unipol Banca, Unipol potrebbe dover investire troppo capitale per rilevare gli Npl in questione e poi partecipare all’aumento di Siena, a fronte di ritorni tutti da valutare.
Nel secondo caso Unipol entrerebbe in quel “nocciolo duro” di azionisti stabili di Bper Spa che secondo fonti di mercato si starebbe coagulando attorno all’associazione Bper Valori e Valore, facente capo ad una cordata di imprenditori locali che avrebbero già accumulato un 7%-8% del capitale dell’istituto emiliano ma che vorrebbero salire al 15%, magari sfruttando anche l’aiuto di Fondazione Banco di Sardegna, socia al 3% di Bper e (forse) interessata a vedere l’istituto sardo tornare autonomo, tramite il coinvolgimento anche di Bank of America Merrill Lynch (cui farebbe riferimento già ora un 10% circa di Bper tra partecipazioni dirette e indirette) come socio finanziario, in attesa di un futuro nuovo matrimonio.
Anche in questo caso, indovinate un po’, il problema è legato alla presenza di 7 miliardi di Npl nel bilancio di Bper, crediti che andrebbero rimossi, operazione che costerebbe circa 2,5 miliardi di euro di mezzi freschi da reperire appunto tramite la cessione di asset non strategici così da non dover andare ad aggiungersi alla fila di istituti che dovranno chiedere soldi al mercato nei prossimi mesi. Una fila già piuttosto consistente se non come nomi almeno come importi, visto che si danno per certe, oltre alla ricapitalizzazione di Mps (sia che venga confermato il piano di Jp Morgan-Mediobanca, sia che si opti per il “piano B” riproposto con alcune varianti da Corrado Passera a inizio mese), quella di Unicredit per una cifra tra i 6 e gli 8 miliardi di euro e quella di Banca Carige, per 500 milioni.
A questi soldi si dovranno sommare altri “spiccioli” per le quattro “good banks”, qualunque sia la sorte che le attende (Banca Marche, CariChieti e Banca Etruria dovrebbero finire a Ubi Banca, CariFe sembra poter andare a CariParma), eventuali ulteriori iniezioni di liquidità per BpVi e Veneto Banca, a loro volta da “ripulire” dagli Npl prima di poter essere aggregate tra loro o con qualche altra banca, e qualche aumento di capitale in ordine sparso per istituti di media e piccola dimensione. Insomma, qualunque siano i nomi coinvolti, al di là dell’entusiasmo di giornata che fa felice i trader, il problema non muta sostanzialmente: alle banche italiane servono tra i 20 e i 30 miliardi di nuovi capitali per lasciarsi alle spalle la maggior parte delle scorie generate dal loro recente passato.
Un passato che è destinato a pesare ancora a lungo sulle quotazioni degli istituti: lo stesso Mps nonostante il volo di questi giorni resta ad una frazione degli 1,74 euro di un anno fa, per non dire dai 91 euro visti nel maggio 2007, quando la crisi dei mutui “subprime” (di cattiva qualità, ndr) era solo una lontana eco in arrivo dagli Stati Uniti e quando tutti gli italiani erano convinti che le loro banche e il loro mercato immobiliare fossero solidi, anzi solidissimi. Perché le nostre banche erano “differenti”, così come le nostre case, non è vero?
Occhio dunque a non farsi prendere troppo dall’entusiasmo: i conti si potranno tirare non prima della prossima primavera, quando si conosceranno i bilanci 2016 degli istituti italiani e si capirà se la ripresa regge e i timidi progressi visti in questi mesi saranno sufficienti, una volta eliminata la zavorra degli Npl, a rimettere le nostre banche in carreggiata e a ridare fiato (e credito) alle nostre imprese.