Dei 45,58 miliardi di crediti deteriorati lordi (22,51 miliardi netti), di cui 28,23 miliardi lordi (10,9 miliardi netti) di sofferenze che emergevano a fine settembre dal bilancio di Mps e che ora il Tesoro deve decidere, coordinandosi con la Bce, come dismettere (si parla della possibilità di procedere alla prevista cartolarizzazione di 27,6 miliardi lordi, magari in più tranche, o di creare una bad bank che oltre alle sofferenze lorde dovrebbe ricevere capitale necessario per provare a gestirle, ossia per compensare le prevedibili perdite su credito), quanti sono stati generati da piccole e medie aziende e quanti da grandi imprese?
La domanda riaffiora puntualmente in un paese come l’Italia dove troppe volte il credito si è rivelato sin troppo “facile” per gli “amici” e molto meno accessibile (e più oneroso) per la clientela ordinaria, indipendentemente dalla singola banca. Basterebbe ricordare il numero elevato di operazioni di ristrutturazione debitoria che si sono registrate dal 2009 a oggi per rendersi conto di come prestare ai grandi gruppi industriali italiani non sempre si sia rivelato un affarone per le banche, ma tant’è.
Secondo voci rilanciate dalla stampa italiana nel caso di Siena il 70% delle insolvenze sarebbe concentrato tra i clienti che hanno ottenuto oltre 500mila euro di finanziamento. In totale si tratterebbe di 9.300 posizioni con un tasso di insolvenza crescente al crescere dell’importo finanziato: la percentuale maggiore di cattivi pagatori (circa uno su tre, il 32,4%) si troverebbe infatti fra coloro che hanno ottenuto oltre tre milioni di euro di prestito.
La gran parte dei problemi nasce dopo l’acquisizione di Antonveneta, avvenuta nel 2008, ma la quasi contemporanea esplosione della crisi economico-finanziaria mondiale, dalla quale l’economia italiana ancora non è riuscita a uscire compiutamente (il Pil resta infatti su livelli inferiori di un 15% a quelli pre-crisi) non consente di affermare che sia stata questa operazione, e non la crisi stessa, a far saltare per aria il rapporto crediti deteriorati/crediti totali. Mussari e Vigni avranno insomma concesso crediti e intrattenuto rapporti d’affari con clienti “eccellenti” come i gruppi Berlusconi, De Benedetti, Marcegaglia, la fondazione Sansedoni, le Ceramiche Ricchetti, le holding Holmo e Finsoe (cui fa capo il controllo di Unipol) ed altri ancora.
Ma se ci si chiede perché siano stati concessi crediti a debitori rivelatisi ex post poco affidabili la risposta non è scontata, al netto della probabile ingerenza politica. Anzitutto, basandosi sulle analisi di solvibilità del Cerved emerge come il 48,5% delle Pmi italiane abbia un profilo vulnerabile e molto rischioso. Se nell’analisi si ricomprendono anche le piccole imprese la percentuale sale al 55%: si tratta di soggetti con un basso merito di credito (rating), un costo del capitale (quando riescono ad avervi accesso) elevato, una possibilità di accesso al credito limitata. A fine 2015, del resto, il 25% delle Pmi italiane ha chiuso il bilancio in perdita e un ulteriore 25% aveva debiti pari o superiori al doppio del patrimonio netto.
Prestare ai grandi gruppi è stata quindi una scelta quasi obbligata per Mps come per le maggiori banche italiane, stante l’attuale impostazione della politica creditizia in Italia, ed il problema in questi ultimi anni è peggiorato anziché migliorare anche a causa della politica monetaria della Bce. Secondo i risultati di un sondaggio sul credito condotto dalla Commissione Ue qualche mese fa, in Italia un 20% di imprese non chiede prestiti perché non ritiene di averne bisogno, un altro 40% non ha le caratteristiche di solvibilità minime per avervi accesso. Resta un 40% di imprese grandi, medie e piccole su cui tutte le banche italiane, non solo l’istituto di Siena, ha concentrato in questi anni la propria offerta commerciale.
Con la Bce che preme perché siano erogati nuovi prestiti per far, finalmente, ripartire l’economia europea gli spread tra tassi attivi (per la banca) e passivi si è ridotta attorno o sotto l’1%, penalizzando ulteriormente una già non brillante redditività. Per migliorarla Mps e le altre banche dovrebbero accettare qualche rischio in più e ampliare la base di imprese finanziabili, andando così a pescare tra le Pmi che al momento sembrano ritenere destinate all’estinzione ma che, a conti fatti, spesse volte si rivelano più attente nell’utilizzo dei capitali ricevuti che non i grandi gruppi “blasonati” del capitalismo tricolore.
In questo senso faceva ben sperare il fatto che nel piano industriale varato in occasione della tentata ricapitalizzazione di mercato da 5 miliardi di euro (e che ora andrà ridefinito) Mps parlasse della volontà di dotare la divisione commerciale di “nuovi strumenti avanzati di analisi della clientela ai fini di valutarne il rischio associato e identificare la migliore offerta di prodotti” anche rafforzando il processo “di early detectionmediante l’utilizzo di processi automatizzati per le esposizioni minori e la creazione di strutture dedicate sia nella divisione Commerciale sia nella divisione Crediti per le esposizioni più rilevanti”. Chissà se il nuovo piano industriale rafforzerà tale indicazione? Di certo per Mps affidarsi eccessivamente ai grandi clienti non si è rivelato un affare.