Il Monte dei Paschi di Siena ha un ulteriore problema: già alle prese con la “mission impossible” di varare entro l’anno un aumento di capitale da 5 miliardi di euro (contro meno di 700 milioni di capitalizzazione e dopo altri due precedenti aumenti di capitale nell’ultimo triennio) e riuscire a cedere, ad un prezzo auspicato ben superiore ai valori che attualmente il mercato è disposto a riconoscere, la totalità dei 28 miliardi di sofferenze in portafoglio (a fronte di 42 miliardi di crediti in varia misura deteriorati), la banca senese ha pensato bene di giubilare il suo amministratore delegato.
Fabrizio Viola, da quatto anni al vertice dell’istituto, ha accettato in settimana di “definire un’ipotesi di accordo per la risoluzione del rapporto” col presidente Massimo Tononi al termine di un Cda in cui lo stesso Tononi, secondo alcune fonti, avrebbe affrontato di petto Viola, apparso sempre più scettico sul successo del piano di rafforzamento, varato a tamburo battente in luglio per venire incontro alle richieste della Bce dopo l’esito degli stress test Eba, chiedendogli di farsi da parte.
A Viola oltre allo scetticismo nei confronti del piano varato dal Cda meno di due mesi or sono si sarebbe rimproverata anche la contrarietà alla proposta alternativa presentata dall’ex numero uno di Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, in tandem con Ubs, proposta che prevedeva la conversione preventiva di tutte le obbligazioni subordinate di Mps in azioni, idea tornata a circolare negli ultimi giorni sia pure in una versione “volontaria” e limitata agli investitori istituzionali, peraltro ottenendo un’accoglienza a dir poco fredda dal mercato, che si domanda a quali condizioni un investitore possa accettare di convertire un asset sicuramente a rischio come una obbligazione subordinata in uno ancora più a rischio come un’azione.
La risposta è, evidentemente, solo dietro la corresponsione di un premio rispetto ai valori a cui trattano i bond (o le azioni), sufficiente a coprire il rischio di un ulteriore calo delle quotazioni, che da quando il piano è stato annunciato hanno già perso un altro 20% e che nei quattro anni di guida di Fabrizio Viola sono crollate del 95%. Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica rischia di venire distratta da gossip e polemiche sulla liquidazione che l’ex numero uno riuscirà a portarsi a casa (si parla di un paio di milioni di euro per ogni anno di lavoro in Mps, per una cifra tra gli 8 e i 10 milioni di euro comprensiva di un corrispettivo legato ad un patto di riservatezza), sarebbe interessante capire cosa dovrà affrontare il sostituto di Viola.
Sostituto che per evitare ulteriori complicazioni dovrà arrivare in tempi rapidi: i candidati più accreditati al momento sembrano essere Marco Morelli, ex direttore finanziario e vice direttore generale di Mps, uscito nel 2010 per assumere l’incarico di direttore generale vicario del gruppo Intesa Sanpaolo e poi, nel 2012, l’incarico di vice chairman Emea di Bank of America Merrill Lynch che tuttora ricopre, o lo stesso Corrado Passera. Altri nomi come quelli di Giampiero Maioli, che guida al momento Cariparma-Credit Agricole, o Roberto Nicastro, presidente delle quatto “good bank” nate dalle ceneri delle “risolte” Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara, sembrano essere stati fatti trapelare per creare cortine fumogene ma potrebbero rientrare in corsa se su Morelli o Passera scattassero veti incrociati.
A sostenere l’ipotesi di una scelta tra Morelli (che ben conosce l’istituto e i suoi conti) e Passera (nome maggiormente di “rottura” rispetto al passato, ma anche con una più forte caratterizzazione politica) sembra infatti essere il tandem Massimo Tononi (già ex presidente di Borsa Italiana, ma anche ex sottosegretario del governo Prodi e in buoni rapporti con Giuseppe Guzzetti, capo delle Fondazioni presenti in Cassa depositi e prestiti come azioniste di minoranza) e Claudio Costamagna (presidente della stessa Cassa depositi e prestiti), entrambi con un passato in Goldman Sachs.
Insediare Morelli o Passera, col beneplacito del Tesoro (formalmente azionista di minoranza, di fatto socio di riferimento della banca), significa tuttavia andare a formulare un “piano B” rispetto all’aumento elaborato con Mediobanca e Jp Morgan, con tutte le incognite del caso. Per tener fede agli impegni con la Bce l’operazione va varata entro fine anno, anche se un leggero slittamento dei termini potrebbe essere consentito nel caso di turbolenze sul mercato causate dal referendum costituzionale italiano o dall’atteso aumento di capitale di Unicredit, già impegnata in una campagna di cessioni per tentare di limitare l’esborso richiesto ai suoi azionisti ma che rischia di anticipare di poche settimane l’operazione targata Mps.
Il nuovo numero uno di Rocca Salimbeni dovrà dunque dedicarsi non solo alla revisione dei piani strategici di medio termine dell’istituto, da tempo alla ricerca di un partner che finora non si è palesato, ma anche alla messa in sicurezza in tempi rapidi dei conti dell’istituto, un passaggio che in molti giudicano vitale per riuscire a rassicurare i mercati sulla tenuta dell’intero sistema creditizio tricolore, da troppi anni alle prese con una bassa redditività, una elevata incidenza dei crediti deteriorati e delle sofferenze rispetto al credito complessivamente concesso, un “funding gap” che solo l’assistenza della Bce ha consentito di colmare per il momento e una generale eccessiva commistione tra finanza e politica i cui frutti avvelenati sono sempre più sotto gli occhi di tutti, anche di chi non ha finora voluto vederli.