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Morire di lavoro: molti giovani non andranno mai in pensione?

Cresce il numero di giovani che in tutto il mondo teme di dover lavorare fino a quanto morirà, senza poter percepire alcuna forma di pensione. Lo rivela una ricerca di Manpower…
A cura di Luca Spoldi
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Pensioni, un problema sempre più pressante per gran parte del mondo occidentale (ma anche per un paese emergente come la Cina). Complice il graduale innalzamento dell’età media e il calo delle nascite, che in alcuni paesi come l’Italia si accompagna a difficoltà strutturali ad incrementare la produttività del lavoro a causa principalmente degli scarsi investimenti in innovazione tecnologica e in formazione delle risorse umane, un numero sempre maggiore di paesi rischia di vedere da qui a 30-40 anni, o anche prima, una elevata percentuale di lavoratori che in pensione non ci andranno mai.

A segnalarlo è una ricerca pubblicata oggi da Manpower, una delle principali multinazionali della selezione del personale, svolta assieme a Reputation Leaders, secondo cui il 12% dei “millenials” in tutto il mondo non si attende di riuscire ad andare in pensione. Più nel dettaglio il 12% degli americani, ma anche di inglesi, italiani e olandesi attualmente tra i 20 e i 34 anni di età, prevede di dover lavorare fino a quando morirà, una percentuale che balza al 37% in Giappone, al 18% in Cina, al 15% in Grecia, mentre in Spagna sono così negativi solo il 3% degli intervistati, in Svizzera il 6%, in Francia e Messico l’8%, in Germania e Norvegia il 9%, in Brasile il 10% e in Australia il 10%. Una classifica che potrebbe riflettere un maggiore (o minora) grado di consapevolezza del problema.

Di certo negli Usa, questa volta in base a numeri ufficiali (quelli dell’US Bureau of Labor Statistics), il 18,9% dei lavoratori ha già oltre 65 anni di età e non pensa ancora a ritirarsi, una percentuale che non era mai stata così alta dal varo del programma di assicurazione medica pubblica Medicare, nel 1965. Di più: se si osserva la percentuale di lavoratori over 65enni e il totale dei lavoratori attivi negli Usa, si nota come dopo aver oscillato attorno a un minimo storico del 10% nel corso della prima metà degli anni Ottanta, il rapporto abbia inizialmente segnato un rialzo tra l’11% e il 12% per tutti gli anni Novanta, per poi iniziare a correre fino a salire all’attuale livello che ha battuto il precedente record del 18% toccato subito dopo il varo di Medicare.

Tra le cause più volte segnalate di questa pericolosa tendenza vi sono un generalizzato calo del tasso di risparmio (fenomeno incentivato dal governo in alcuni paesi come l’Italia, nel tentativo di stimolare una ripresa che invece resta anemica), le peggiori prospettive d’impiego e di carriera dei giovani e, appunto, l’invecchiamento della popolazione (in Italia la speranza di vita media dovrebbe passare dagli attuali 84 anni per gli uomini e 88 per le donne a 88 e 92 anni rispettivamente nel 2065). Andando a scavare tra i dati della ricerca si scopre anche che solo il 3% degli intervistati statunitensi ha un lavoro “auto imprenditoriale” come essere un autista che sfrutta la app di car-sharing Uber, o fa il freelance per TaskRabbit.

La maggioranza degli intervistati, in tutto il mondo, ha un lavoro dipendente, ma un buon 35% negli Usa si è detto disponibile a considerare un lavoro part-time in futuro e il 41% anche una forma di auto imprenditorialità se sarà necessario o opportuno. Nel frattempo in Italia il ministro Poletti e il premier Renzi hanno preannunciato interventi per innalzare le pensioni minime, “troppo basse”, forse con un meccanismo simile al bonus Irpef da 80 euro lordi al mese (che pure non sembra aver finora prodotto alcuna maggiore ripresa di consumi e investimenti), e in parallelo valutare un meccanismo che consenta di andare in pensione sino a 3 anni anticipatamente, sia pure con una penalizzazione di circa il 4% l’anno.

Domanda: dove sono le risorse? Seconda domanda: non sarebbe meglio intervenire sulle cause di tutto ciò, ossia agendo sulla fiscalità che grava sulle imprese (specie in Italia) o cercando di introdurre incentivi per una maggiore diffusione dell’innovazione tecnologica che si accompagni a forme di formazione perenne delle risorse umane? Alcuni colleghi affermano che ormai i governi nazionali hanno perso la capacità di avere una visione sufficientemente chiara del futuro, avendo le leadership politiche di molti paesi un orizzonte che non va oltre l’orizzonte delle settimane o mesi seguenti. Così facendo le nazioni perdono potere nei confronti di singoli gruppi di pressione come aziende o lobbies. La ricerca di Manpower non può rispondere a queste domande, ma il quadro che disegna sembra sufficientemente inquietante da portare almeno a porsele e a riflettervi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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