La giornata odierna poteva e inizialmente sembrava essere quella del riscatto per i mercati finanziari italiani, galvanizzati da un nome che è una sicurezza, quello di Mario Monti, presidente ed ex rettore dell’Università Bocconi (è sua la firma in calce alla laurea dell’autore di queste modeste note), due volte commissario Ue, da pochi giorni senatore a vita e “padre della patria” in pectore nonché aspirante premier italiano, a giorni se non a ore, e poi chissà se futuro candidato premier del Centrosinistra o aspirante al seggio del suo grande elettore, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Qualcosa è però andato storto e così partite alla riscossa tutte le borse europee, Milano compresa (in calo a fine seduta dell'1,99%), hanno dovuto tornare sui propri passi e chiudere in calo, mentre gli spread dei “periferici” (Francia compresa) tornavano ad allargarsi dopo un iniziale avvio in restringimento col differenziale Btp-Bund sui 10 anni che ha terminato la giornata a 492 punti base dopo un minimo intraday a 446 punti, rispetto ai 456 punti della chiusura di venerdì scorso e nonostante ulteriori acquisti da parte della Bce, mentre il rendimento del Btp decennale guida sale al 6,71% dopo un minimo visto a inizio giornata del 6,34%.
Che cosa è successo? Ad esempio che il superindice Ocse per settembre ha mostrato variazioni negative per tutti i paesi monitorati, con risultati più contenuti per Cina (-0,1%), Russia (-0,2%) e Usa (-0,3%) e decisamente più pesanti per Germania (-1,3%), Brasile (-1,1%) e Italia (-1%), cosa che non fa ben sperare per la crescita dell’anno venturo e pertanto rischia di rendere ancora più difficile il lavoro non solo di Monti ma di tutti i principali governi mondiali alle prese con la necessità di stimolare l’economia da un lato ed evitare l’insorgere dell’inflazione (nei paesi emergenti) o ristrutturare la spesa pubblica (in Occidente) dall’altro.
A questo si aggiunga che oggi il Tesoro metteva all’asta una nuova tranche di Btp a cinque anni ed il risultato è stato positivo per certi versi, deludente per altri: se la domanda ha mandato un primo confortante segnale di tenuta (anzi di lievissimo recupero) con 3 miliardi (il massimo previsto) di euro di titoli assegnati e un rapporto domanda/offerta risalito a 1,469 volte dalle 1,344 volte dell’asta precedente di metà ottobre, il tasso che il Tesoro ha dovuto pagare è stato del 6,29%, dal precedente 5,32%, ben distante dal quel 4,3% massimo che teoricamente il debito pubblico italiano può permettersi di pagare anche a fronte di una crescita non superiore al mezzo punto percentuale l’anno venturo senza dover ulteriormente inasprire la manovra correttiva sui conti pubblici, manovra che per risultare efficiente e non ammazzare la debole ripresa dovrebbe basarsi più su tagli e razionalizzazioni delle spese che non su nuove entrate come invece appena capitato col provvedimento licenziato in tutta fretta dal Parlamento nel fine settimana, ultimo atto del governo Berlusconi sulla cui efficacia ed equità è lecito esprimere più di un dubbio.
E visto che Monti, che dovrebbe annunciare la sua squadra entro la settimana, potrà scegliere più o meno liberamente i nomi dei suoi ministri e sottosegretari, ma dovrà poi farsi votare qualsiasi provvedimento da quegli stessi uomini che negli ultimi 20 anni non hanno avuto il coraggio o la competenza per varare per tempo e in modo più efficiente ed efficace (ed equo) riforme che ora si dovrebbero provare a far nell’arco di poche settimane o al massimo qualche mese, viene il sospetto che abbia ragione Christian Clausen, presidente della Federazione bancaria europea che oggi ha “candidamente” dichiarato che “le banche stanno facendo esattamente quello che dovrebbero fare: stanno riducendo l’esposizione al rischio” attraverso al vendita di titoli di stato italiani sul mercato. Una dichiarazione tanto improvvida quanto corretta alla luce di quanto capitato in questi ultimi due anni con la Grecia (che nonostante continue promesse e smentite di ogni volontà di ristrutturazione è già arrivata al punto di proporre rimborsi dimezzati dei propri titoli alle banche detentrici degli stessi).
Parlare di banche mi porta a segnalarvi come oggi apparentemente il mercato azionario abbia premiato un titolo, il Monte dei Paschi di Siena, perché oltre che buoni numeri ha ripetutamente dichiarato di non voler fare altri aumenti di capitali e anzi di non voler rimborsare anticipatamente i Tremonti bond all’epoca sottoscritti proprio per evitare ogni possibile tensione sul fronte dei coefficienti patrimoniali, mentre ha punito duramente un altro titolo, UniCredit, che ha deciso di fare esattamente l’opposto, approvando risultati dei nove mesi che a fronte di un utile “normalizzato” di 847 milioni si chiudono con una perdita netta “civilistica” di 9,32 miliardi a causa di una massiccia svalutazione dell’avviamento e di ulteriori svalutazioni di poste quanto meno dubbie. Con in più l’annuncio di un prossimo aumento di capitale da 7,5 miliardi di euro, l’azzeramento dei dividendi 2011 e una serie di operazioni di ristrutturazione e liquidazioni di attività che comporteranno tra l’altro la riduzione di 6.500 posti di lavoro in Italia di cui 5.200 da qui al 2015.
Personalmente trovo più corretta e vantaggiora per gli investitori a medio termine, sebbene molto più dolorosa nell'immediato, la scelta di UniCredit: rinviare le soluzioni sperando che i mercati possano dare una mano è sempre rischioso, mentre fare pulizia di asset di dubbio valore è sovente in grado di imprimere una svolta nella gestione di qualsiasi banca o azienda che sia, ma certo si tratta di decidere se tutelare gli interessi e i “diritti acquisiti” degli azionisti presenti o di quelli futuri. Col rischio, proprio come nel caso delle politiche di bilancio pubblico, che per difendere interessi anche legittimi di una parte si sacrifichi il futuro di tutti quanta l’azienda (o la nazione, a seconda dei casi).
Nello specifico l’istituto guidato da Federico Ghizzoni ha deciso di contabilizzare, nel solo terzo trimestre dell’anno, una perdita netta di 9.320 milioni di euro, di cui 8.669 milioni legati alla svalutazione dell’avviamento (azzerando in particolare il Goodwill legato alle acquisizioni compiute in Ucraina e Kazakhstan), oltre che dei titoli di stato greci ancora in portafogli ( per 135 milioni) e quella per le attività di HVB e Bank Austria (per altri 100 milioni). Ghizzoni oltre a lasciare a secco i propri azionisti (tra cui le Fondazioni bancarie, la cui attività di erogazione sul territorio pure dipende dal flusso di dividendi delle rispettive partecipazioni) ristrutturerà i 3 miliardi di titoli “cashes” (in sostanza delle obbligazioni convertibili emesse in occasione del precedente aumento di capitale del 2009 per coprire l’inoptato, che vennero sottoscritte in gran parte da Mediobanca e per una piccola quota da una ventina di altri investitori internazionali) e gestirà “oculatamente” per poi liquidare a scadenza circa l’11% delle attività ponderate per il rischio “in bonis” e non strategiche esistenti al giugno 2011 (in tutto 43 miliardi di euro di titoli).
In più il gruppo conta di emettere ulteriori obbligazioni garantite per 31 miliardi di euro entro il 2015 e intende utilizzare la “notevole capacità non ancora sfruttata per il collocamento di obbligazioni attraverso la propria rete retail”. In sostanza le nuove obbligazioni verranno fatte sottoscrivere il più possibile ai propri clienti. A livello organizzativo il gruppo conta infine di ridurre dell’8% i costi del personale nel 2012, di uscire da “attività sub-scala, includendo la creazione di alleanze strategiche nel brokeraggio e nella ricerca”, riorganizzare la rete di filiali riducendo tra l’altro dall’87% del 2011 al 26% del 2015 la percentuale di filiali principali presenti in rete a vantaggio delle filiali “minori”, cash-light o cash-less, il tutto per raggiungere entro il 205 un utile netto di 6,5 miliardi di euro e un Rote (rendimento del capitale rettificato) del 12% (con un obiettivo intermedio di 3,8 miliardi di utile netto ovvero un Rote del 7,9% a fine 2013).
Un piano ambizioso ma che se avrà successo metterà “in sicurezza” uno dei due maggiori gruppi creditizi italiani favorendo quell'opera di ricostituzione della fiducia che è obiettivo anche del nuovo governo italiano, sperabilmente senza scaricare il maggior onere dell’operazione sulle sole spalle di dipendenti e clienti tutti.