Si avvicina il “game over” per uno dei simboli di “Corporate America” tra i più riconosciuti al mondo, insieme alla Coca-Cola ? Nei primi tre mesi dell’anno McDonald’s Corporation, la maggiore catena di ristoranti “fast food” al mondo con oltre 36 mila locali (per oltre l’80% in franchising) che ogni giorno servono oltre 69 milioni di clienti in 100 diversi paesi della Terra, ha visto le vendite calare del 2,3% annuo su base comparabile a causa di un calo del “traffico di ospiti” in tutti i maggiori segmenti in cui opera, mentre i parallelo i ricavi consolidati sono diminuiti dell’11% (-1% a cambi costanti: in questo caso la forza del dollaro penalizza chi come McDonald’s fattura in decine di valute mondiali).
A guastare definitivamente la festa del “re degli hamburger” o del “junk food”, a seconda dei punti di vista, il reddito operativo consolidato è apparso in calo del 28% (-20% a cambi costanti) non solo per un andamento debole delle vendite, ma anche per 195 milioni di dollari di oneri legati alla chiusura di ristoranti e altre azioni di razionalizzazione della rete. Per indorare la pillola McDonald’s, in calo oggi di poco meno di un punto percentuale a Wall Street e con un guadagno (in dollari) di appena un punto percentuale segnato negli ultimi 12 mesi di quotazione, ha annunciato di voler procedere a restituire agli azionisti 1,4 miliardi di dollari tramite dividendi e riacquisto di azioni proprie.
In realtà ad essere in crisi, al di là delle singole voci del conto economico, sembra proprio il modello di business di McDonald’s, che negli Usa è impegnata da almeno un paio d'anni a semplificare i propri menù e a focalizzarsi su menù a base di specialità locali “per essere più responsabile nei confronti delle preferenze dei consumatori”. Uno sforzo sottolineato anche dal nuovo Ceo, Steve Easterbrook (già responsabile del marchio a livello globale, che dal primo marzo ha preso il posto di Don Thompson, rimasto ai vertici del gruppo meno di due anni), che ha segnalato come il gruppo stia studiando un “piano di svolta per migliorare le nostre performance” ma che nell’immediato non sembra destinato a produrre particolari effetti, tanto che il direttore finanziario del gruppo, Kevin Ozan (a sua volta subentrato da poco al suo predecessore, Pete Bensen), ha subito aggiunto che anche le vendite su base comparabile di aprile “sono attese in calo”.
Se la crisi di McDonald’s negli Usa è ormai oggetto di analisi da parte delle maggiori banche d'affari, non è che su altri mercati le cose vadano molto meglio. In Cina lo scorso autunno è esploso uno scandalo legato alla scoperta che un fornitore locale Shanghai Husi Food, aveva mischiato carne di pollo fresca e scaduta per rifornire i McDonald’s giapponesi e gli Starbucks e Burger King cinesi, mentre in Giappone (dove sono 3.100 i ristoranti con gli archi dorati) i consumatori hanno continuato a “percepire problemi”, un modo elegante per evitare di ricordare che a inizio anno alcuni clienti avevano trovato pezzi di plastica o vinile nelle confezioni dei Chicken McNuggets (prodotte in Tailandia dalla Cargill, subito dichiaratasi estranea all’accaduto), di cui il gruppo ha poi deciso di ritirare e distruggere un milione di confezioni. Nell’agosto dello scorso anno era invece stato un altro cliente a trovare un dente umano in una confezione di patatine fritte, obbligando l’azienda a fornire scuse ufficiali.
Proprio per farsi perdonare queste negligenze McDonald’s, un tempo alfiere della ristorazione veloce e standardizzata in tutto il mondo, ha scoperto le virtù delle cucine locali (in Giappone è stato ad esempio lanciato un nuovo nugget fatto di tofu, in Italia dovrebbe arrivare entro l’anno un “veggie burger”, hamburger vegetariano che se spopola in India ha finora fatto fatica a imporsi in Germania), imitando la concorrente catena messicana Chipotle, che in questi anni ha puntato tutto sui prodotti biologici e a chilometro zero vedendo decollare le proprie vendite. Ma non è detto che questo basti a recuperare terreno in mercati, come quello russo, che stanno sperimentando una contrazione economica, per di più legata a sanzioni economiche occidentali rispetto alle quali è fin troppo facile proporre delle azioni di boicottaggio di prodotti “a stelle e strisce” come quelli di McDonald’s.
In qualunque modo vada a finire, l’attenzione per la diversità, che si tratti di gusti alimentari o intolleranze, sembra destinata ad affermarsi cambiando per sempre volto alla catena di fast food americani. Non significa però che McDonald’s sia diventata arrendevole nei confronti dei concorrenti, come dimostra il recente spot pubblicitario in cui un bambino (target di clientela a cui il gruppo vuole puntare con sempre maggiore decisione visto la disaffezione di ragazzi e adulti) scarta con decisione una pizza in favore di un “Happy Meal”. Va bene che de gustibus non est disputandum, ma una simile scelta non appare rispettosa né dei bambini italiani né di coloro che amano, a giusta ragione, la pizza. Specialmente quando non si tratti di quella fatta da catene a basso costo come PizzaExpress (da cui guarda caso proviene Steve Easterbrook), ma da qualche pizzaiolo storico di Napoli.