Colombe pasquali e casatielli sono rimasti alquanto indigesti ai broker che seguono i mercati delle materie prime, quest’anno. Al ritorno all’attività i mercati finanziari europei hanno visto il petrolio cedere un 3% abbondante, scivolando sui 38 dollari al barile, il gas naturale resta sugli 1,88 dollari per milione di Btu (3412 Btu equivalgono a 1 Kilowattora), mentre il rame sfiora il 2% di perdita a 4945 dollari per tonnellata metrica. A Piazza Affari si accorge subito dell’ennesimo passo indietro del greggio il titolo Saipem, che chiude la giornata a soli 33 centesimi, in calo del 5,25%.
Nel frattempo la società controllata dall’Eni nel cui capitale è entrata, con un timing a dir poco infelice, Cassa depositi e prestiti, ha annunciato la variazione intervenuta nella composizione del capitale sociale (interamente sottoscritto e versato) a seguito della conversione di azioni di risparmio in azioni ordinarie al 16 marzo 2016, capitale sociale che resta pari a 2.191.384.693 euro suddiviso in 10.109.774.396 azioni di cui 10.109.668.270 azioni ordinarie e 106.126 residue azioni di risparmio.
Con un calo del 71% abbondante negli ultimi 12 mesi e del 63% da inizio 2016, Saipem si conferma così la peggiore blue chip da inizio anno e non è detto che il peggio sia alle spalle, visto che gli analisti di Barclays giusto oggi hanno avvertito gli investitori che per le materie prime potrebbero esserci nuovi ribassi in arrivo, col rame visto calare fino a 4 mila dollari a tonnellata cubica e il Brent del Mare del Nord (che oggi oscilla a 39 dollari al barile) fino a 30 dollari al barile, come conseguenza della nuova ondata di disinvestimenti che dovrebbe seguire il rimbalzo delle quotazioni visto nelle passate settimane.
Da notare tuttavia come l’attuale quarto maggiore acquirente al mondo, l’India (che l’Agenzia internazionale dell’energia, o IEA, vede poter diventare il terzo maggior acquirente di petrolio al mondo entro fine anno, superando il Giappone e piazzandosi così alle spalle di Stati Uniti e Cina), che è al tempo stesso un produttore, non paia preoccupato e preveda un futuro equilibrio con prezzi tra i 45 e i 50 dollari al barile, un livello che sarebbe “molto ragionevole” e non impatterebbe ulteriormente le attività di esplorazione e produzione, dopo che colossi come Chevron hanno già cancellato nuovi investimenti per oltre 100 miliardi di dollari nel corso del 2015, secondo l’IEA.
Per Saipem, tuttavia, l’auspicata stabilizzazione del greggio, che avvenga attorno ai 35-40 dollari al barile o ai 40-45 dollari al barile, potrebbe non bastare. Sul mercato continuano a circolare voci riguardo il fatto che le banche del consorzio di garanzia che hanno dovuto acquistare i titoli inoptati in sede di aumento di capitale, possano alla fine cedere le azioni sul mercato anche a prezzi sacrificati, di poco superiori ai 32,6 centesimi di euro per azione a cui hanno dovuto sottoscrivere i nuovi titoli. Un precedente c’è già visto che Jp Morgan e Goldman Sachs a inizio marzo hanno già collocato 700 milioni di azioni della società (il 6,3% circa del capitale) al prezzo di 0,39 euro per azione.
Guarda caso l’operazione è avvenuta con un prezzo del petrolio attorno ai 40 dollari al barile e ha riguardato poco più della metà del capitale che il consorzio bancario aveva dovuto sottoscrivere. Nel frattempo la prolungata fase di prezzi cedenti ha già sortito effetti non trascurabili negli Stati Uniti: secondo Baker Hughes al 24 marzo scorso negli Usa erano in attività 464 trivelle, 584 in meno di un anno prima; in Canada si era scesi a 55 trivelle, 65 in meno, a livello internazionale se ne contavano altre 1018, con un calo di 257 impianti. Insomma, almeno per quanto riguarda gli impianti sorvegliati da Baker Hughes già una buona metà delle trivelle sono state fermate, eppure i prezzi non sono risaliti: non esattamente un buon viatico per chi come Saipem lavora nel settore dell’esplorazione petrolifera.