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Marjiuana e sesso: quando il vizio diventa un business legale

In alcuni degli Stati Uniti la vendita della cannabis sta divenendo legale e c’è chi prova a scommettere sulla crescita del business. Ma come dimostrano alcuni precedenti nel caso della prostituzione legale, non sempre puntare sui vizi paga…
A cura di Luca Spoldi
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Che il denaro possa essere frutto di attività che fanno leva sui “vizi dei consumatori è noto da secoli, che negli Usa sia legale oltre alla prostituzione (al momento solo più nel Nevada, dopo che dal 2009 è stata nuovamente dichiarata illegale nel Rhode Island che dal 1980 l’aveva legalizzata) la vendita di marijuana (in 23 stati è legale solo l’utilizzo terapeutico, in Colorado, Washington, Oregon e Alaska la liberalizzazione è totale), è cosa più recente ma dato che secondo l’associazione nazionale per la cannabis (National Cannabis Industry Association) il giro d’affari annuo derivante dalla sola vendita legale di cannabis oscilla tra i 2 e i 3 miliardi di dollari ed è destinato a superare i 10 miliardi nel 2018 (a fronte di 40-50 miliardi di dollari di spesa complessiva, in larga parte per acquisti illegali), era inevitabile che prima o poi qualche investitore di ventura pensasse di unire l’utile al dilettevole, investendo nelle aziende del settore.

Ha rotto il ghiaccio da pochi giorni Founders Fund, un fondo venture di San Francisco che si è fatto negli anni una reputazione per aver investito in promettenti aziende che rispondono al nome, tra l’altro, di Facebook, divenuto in pochi anni il principale social network al mondo, di Palantir Technologies, azienda specializzata nell’analisi dei dati per conto della Sec e delle principali agenzie di spionaggio americane e non, e di SpaceX, impegnata in queste ore a cercare di far decollare la sua quinta missione di rifornimento per la stazione spaziale internazionale (una missione speciale perché stavolta il primo stadio del razzo Falcon9 che porterà il cargo Dragon sino alla Ssi, dove sarà agganciato dal Barry Wilmore assistito dall’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, dovrebbe tornare intatto sulla terre per essere poi riutilizzato), piuttosto che Airbnb, Spotify e Stripe.

Tutti investimenti di altissima qualità che hanno consentito ai quattro partner di Founders Fund (Peter Thiel e Ken Howery, che fondarono la società nel 2005, cui si aggiunsero nel 2006 Luke Nosek e Brian Singerman) tra i cofondatori o primissimi manager di società come Napster, PayPal, Google, Palantir Technologies e SpaceX stessa, di raccogliere capitali per oltre 2 miliardi di dollari in cinque successivi “round”, l’ultimo dei quali di un miliardo, lo scorso anno (essendo partiti da soli 50 milioni di dollari raccolti da investitori individuali e business angel nel 2005), soldi che Thiel e compagni spiegano di voler veder salire fino a 50 miliardi di dollari investendo in aziende e persone brillanti in grado di risolvere problemi difficili ma non insormontabili, dall’aerospazio alla biotecnologia, dall’intelligenza artificiale all’energia oltre che al web, e non è detto che non ci riescano.

Finora però nessuno aveva pensato al business della cannabis in Founders Found ed anzi nel giro dei venture capitalist aveva provato a investirvi solo Ghost Group, società d’investimento guidata da Justin Hartfield, che nel giugno del 2013 ha investito nel sito WeedMaps.com, un portale che consente di visualizzare su mappe online e pubblicizza i distributori legali di marjiuana negli Stati Uniti. Hartfield ha più volte dichiarato di non aver ricevuto neppure “un centesimo” dei soldi dei grandi investitori della Silicon Valley per sviluppare il business di WeedMaps.com e alcune attività “ancillari” (come lo sviluppo di tecnologie), che nel complesso già ora registrano un giro d’affari di oltre 25 milioni di dollari l’anno, nonostante alcuni “abboccamenti” avuti anni prima con investitori di fama come Tim Draper, che però avevano finito col declinare a causa dei problemi legali ancora esistenti e dei dubbi sulla “scalabilità” del business.

Dubbi che sembrano aver superato Thiel e i suoi soci, visto che hanno appena partecipato (per una somma non precisata) ad un round di finanziamento da 75 milioni di dollari, di cui oltre 50 milioni sarebbero già stati raccolti ad oggi, a favore di Privateer Holdings, società di private equity fondata nel 2011 da Brendan Kennedy, Michael Blue e Christian Groh a sua volta specializzata sul business della cannabis ad uso medico e ricreativo. Al momento il portafoglio di Privateer (che prima dell’attuale round aveva raccolto 7 milioni di dollari di capitali da investire) è composto solo da tre società: Leafly.com, principale sito informativo sull’utilizzo legale della cannabis (viene descritto come “una sorta di Yelp della marjiuana”), Tilray, società canadese che coltiva e distribuisce cannabis per uso medico, e Marley Natural, marchio di proprietà di Little Bay Inc. (a sua volta holding fondata dagli eredi di Bob Marley e la stessa Privateer) che entro la fine del 2015 inizierà a distribuire marijuana, lozioni e balsami giamaicani, oltre che accessori prodotti a mano.

Una notizia “da sballo” per la stampa americana e mondiale, che infatti si è subito buttata sull’argomento, ma potrebbe non essere finita qui perché già alcune società starebbero puntando addirittura a sbarcare sul listino di Wall Street per raccogliere ulteriori fondi, anche se Brendan Kennedy getta acqua sul fuoco sottolineando come sarebbe  prematuro. Visti alcuni precedenti è un parere molto sensato: nel 1989 il Mustang Rach, uno dei più noti bordelli del Nevada, avrebbe dovuto debuttare in borsa ma lo sbarco fallì perché l’Ipo venne sottoscritta solo per il 75% e, per di più, l’anno seguente il suo proprietario, Joe Conforte, venne imprigionato in seguito ad una condanna per frode fiscale, racket e altri reati federali e la sua proprietà messa all’asta (per essere riaperta solo nel 2005). Apparentemente più fortunato il Daily Planet, bordello australiano di lusso che nel 2003 riuscì a sbarcare sul listino di Melbourne.

Ad essere precisi, tuttavia, a sbarcare in borsa fu la Daily Planet Ltd, trust immobiliare proprietario della struttura, che dopo aver acquistato alcuni strip club mise in vendita il Daily Planet (nel 2004) per 5,7 milioni di dollari australiani, cambiando nome in Planet Platinum, perché l’idea di essere associati a tenutari di un bordello aveva finito con lo spaventare la maggior parte degli investitori. Alla fine la vendita non andò neppure in porto e il Daily Planet fu ritirato dal mercato nel 2006 restando di proprietà di Planet Platinum, il cui prezzo in borsa, dopo essere quadruplicato inizialmente rispetto ai valori del collocamento (mezzo dollaro australiano), finì col crollare a circa un quarto di tale livello agli inizi del 2007, per poi riprendersi in parte nel 2009. Attualmente un’azione Planet Platinum vale circa 20 centesimi di dollaro australiano, ossia il 40% del prezzo del collocamento: come dire che non sempre il vizio fa rima con buoni investimenti.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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