Sergio Marchionne è un uomo di parola: ha deciso da tempo, conoscendo i numeri del mercato meglio di molti improvvisati commentatori, politici e non, di casa nostra, che il mercato dell’auto che può ancora interessargli è quello dell’alto di gamma e per questo vuole puntare su quattro marchi in particolare (Jeep, Alfa Romeo, Maserati e Ferrari), aprendo a possibili alleanze (aperture che per la verità finora nessun concorrente sembra aver voluto cogliere) per le auto di piccola e media cilindrata che, pur facendo volumi (preziosi per ammortizzare i costi) non generano profitti sufficienti e dovranno dunque, presto o tardi, fare nuovamente i conti con tagli dei costi e contrazioni della capacità produttiva, nel complesso ancora sovrabbondante tra i produttori occidentali (ma anche giapponesi).
In questo suo sforzo per valorizzare il meglio che il gruppo Fiat Chrysler Automobiles possiede si inserisce la decisione, presa da tempo, di scorporare la Ferrari e procedere ad una sua quotazione. Quotazione per la quale in questi giorni il gruppo ha scelto il listino del New York Stock Exchange (Nyse) avanzando una formale richiesta di quotazione alla Securities and Exchange Commission (Sec) cui compete la sorveglianza dei mercati finanziari. Seguiranno l’operazione, che se otterrà tutte le luci verdi necessarie potrebbe avvenire già tra l’autunno e la fine dell’anno, Ubs, Bank of America Merrill Lynch e Banco Santander in qualità di joint bookrunner ( Ubs svolgerà anche il ruolo di global coordinator).
Secondo le indicazioni fornite da Fca nella documentazione, Ferrari dovrebbe valere la bellezza di 50 miliardi di dollari (per fare un raffronto, oggi il gruppo assicurativo statunitense Anthem ha rilevato la concorrente Cigna per 53 miliardi di dollari, dando origine al principale assicuratore sanitario a stelle e strice, con 53 milioni di pazienti assicurati in tutti gli States), talché il 10% “massimo” che Marchionne aveva già detto di voler collocare in borsa potrebbe fruttare fino a 5 miliardi di dollari, da utilizzare per finanziare parte del piano di investimenti dei marchi di lusso (che nel complesso prevede investimenti per 48 miliardi di euro, circa 53 miliardi di dollari).
Dopo lo sbarco sul Nyse, Fca conta di distribuire il residuo 80% dei titoli Ferrari posseduti ai propri soci, attraverso appunto lo scorporo della società. Exor, la holding di casa Agnelli che possiede il 30% di Fca (ma il 46% dei diritti di voto), e Piero Ferrari, erede del “drake” e già ora azionista al 10%, dopo l’operazione dovrebbero mantenere il controllo su oltre il 45% dei diritti di voto, grazie anche ad un preannunciato “loyalty share plan” che premierà gli azionisti a lungo termine come appunto la famiglia Agnelli e il figlio di Enzo Ferrari. Sarà anche per questo che la stampa americana per ora è molto cauta nel valutare l’operazione.
L’agenzia finanziaria Bloomberg, ad esempio, suggerisce che acquistare una Ferrari d’epoca possa rivelarsi un investimento molto più gratificante, sotto tutti i punti di vista, che non acquistare titoli Ferrari a Wall Street. Difficile dargli torto, del resto, visto che dal 2006 a oggi i prezzi dei 13 modelli più ricercati del Cavallino costruiti tra il 1950 e il 1970, dalla Testarossa alla F250, sono cresciuti di circa 7 volte secondo il catalogo Hagerty Price Guide Index of Ferrari’s, considerato dagli investitori del settore una sorta di “bibbia”. Attenzione però: il fatto che dal milione e mezzo di dollari che mediamente costava uno di questi modelli nel maggio 2009 si sia arrivati ai 5,3-5,4 milioni attuali non significa che da qui ad altri 5 o 6 anni si potrà rivendere questi gioielli meccanici a 30 o 40 milioni l’uno.
Nell’ultimo anno, in particolare, i prezzi hanno iniziato a stabilizzarsi, l’entusiasmo è in parte scemato e il numero di potenziali investitori in cerca del “buon affare” è aumentato forse fin troppo per non far temere che si sia creata una bolla che, come ogni bolla, potrebbe esplodere. Certo Sergio Marchionne non ha intenzione di fare sconti (non è del resto sua abitudine), per cui fin d’ora a fare il buon affare con l’Ipo di Ferrari sembrano destinati ad essere in prima battuta gli attuali azionisti di maggioranza del Cavallino. Non è però detto che in mercati finanziari dove i tassi d’interesse restano modesti (e tali resteranno a lungo anche se la Federal Reserve iniziasse come previsto ad alzarli dalla fine dell’anno) e dove l’oro, sui minimi dei cinque anni, e il petrolio, nuovamente sotto i 50 dollari al barile, non brillano più come fino a un paio d’anni fa, quello di Ferrari non possa rivelarsi ex post un debutto vincente e dunque una scommessa in grado di ripagare anche chi sottoscriverà i titoli in sede di collocamento.