La narrazione dell’Unione europea colpita a morte dall’uscita della Gran Bretagna e dall’elezione di Donald Trump con conseguente ritorno al mercantilismo, dell’euro valuta che serve solo alla Germania per esportare e danneggia tutti gli altri, della necessità per ciascun paese di tornare alla propria valuta, alle proprie frontiere, alle dogane (“un fiorino!”), ai bei tempi di una volta in cui queste diavoleria della tecnologia non esistevano e per fare il lavoro di una macchina servivano 5 o 10 uomini, ha subito un brutto colpo con l’elezione di Emmanuel Macron a nuovo presidente francese.
Macron è un ex banchiere d’affari, secondo alcuni un massone (nel suo primo discorso da presidente “in pectore” Macron era “incorniciato” dalla piramide di vetro del Louvre), un uomo pro-establishment sostenuto da gran parte della stampa francese. Tuttavia Macron, quando era ministro delle Finanze, si è più volte espresso più volte a favore dell’introduzione di meccanismi finanziari in grado di ridurre gli squilibri esistenti in Eurolandia e che neppure la Bce con la sua politica monetaria ultra rilassata è riuscita a far venire meno.
Due anni fa Macron ha sostenuto la necessità di arrivare ad avere un Tesoro unico per la zona euro, alimentato dalle tasse raccolte dai singoli paesi e con un unico ministro responsabile delle risorse raccolte, in grado di far affluire risorse dai paesi più ricchi a quelli in difficoltà. Cose da far impallidire sia Angela “mutti” Merkel, sia soprattutto Matteo Renzi, o qualsiasi altro futuro premier italiano, dato che a quel punto se Berlino dovrebbe accettare quel principio di mutualità del debito che finora ha rifiutato, Roma non potrebbe più continuare a fare politica di crescita (si fa per dire) a debito.
Il tutto, ovviamente, non senza dare in cambio riforme che all’elettorato italiano che ha finora espresso l’attuale classe dirigente del paese non possono andare a genio, in quanto minerebbero rendite di posizione consolidatesi negli anni. Ma riuscirà davvero Macron a portare avanti un programma di riforme incisive in Francia per poter così richiedere un altrettanto incisivo programma di riforme in Europa, rinsaldando l’asse Parigi-Berlino che secondo alcuni di fatto sarebbe la “prova provata” di un’Europa a due velocità in cui le decisioni che contano si prendono al centro e poi si comunicano alla periferia, che si tratti di Roma, Madrid, Lisbona o Atene?
Per saperlo occorre attendere fino al prossimo 11 e 18 giugno quando si terranno le elezioni legislative francesi e si capirà se Macron potrà godere su una maggioranza in Parlamento o dovrà accettare un governo di “coabitazione” con un primo ministro del partito di opposizione che potrà in larga misura ignorare il programma del Presidente. Nel frattempo il nuovo gioco “di società”, ma con implicazione per i mercati e l’economia italiana tutta, sembra essere quello di capire chi sia il “Macron italiano”.
In campo politico non sembra di vederne alcuno (secondo alcuni potrebbe essere, per storia personale, proprio l’attuale premier, Paolo Gentiloni, che però difficilmente potrà smarcarsi da Matteo Renzi per evitare il rischio di andare immediatamente a elezioni anticipate), in campo finanziario invece sì: Carlo Messina, numero uno di Intesa Sanpaolo, la più “sistemica” tra le banche tricolori, non ha perso tempo a esternare, sul Corriere della Sera, la sua sensazione che l’Italia ce la possa fare, anzi ce la stia già (ri)facendo, con una ripresa “che viene dal mondo delle famiglie e delle imprese” e investimenti che accelerano anche se la disoccupazione resta troppo elevata e per riassorbirla “ci vuole una crescita più sostenuta” di uno striminzito 1% annuo.
Come riuscirci? La ricetta è scontata: riducendo il debito pubblico, ossia l’opposto di quanto il “populista” Renzi ha fatto. Ma con un occhio al “sociale”, tanto che, ricorda Messina, se essere azionisti di Alitalia (come è Intesa Sanpaolo) “come banca non è virtuoso nel medio periodo e questo è un cordone destinato ad essere reciso”, se esistono progetti industriali con partner “che possono dare vere prospettive di ritorno alla redditività della compagnia aerea, la banca li valuterà con estrema attenzione” perché “ci sono in ballo 20 mila posti di lavoro, tra azienda e suo indotto”, mica pizze e fichi.
Un po’ di rigore, un po’ di innovazione, un po’ di attenzione ai più deboli (se si può parlare di “più deboli” nel caso dei lavoratori di Alitalia, rispetto alle condizioni medie dei lavoratori italiani). Il possibile “Macron italiano” ha una ricetta che potrebbe intercettare se non il voto certamente l’interesse di larga parte della società italiana, tanto più che ha una proposta anche per risolvere l’annosa crisi del Mezzogiorno: “esprime delle eccellenze nel settore aerospaziale, farmaceutico e agroalimentare, può diventare una delle principali piattaforme logistiche d’Europa, nel turismo i margini di crescita sono enormi”. A patto, beninteso, di rimuovere “i punti di debolezza del Paese. Come il debito”. Come dargli torto?