“Dobbiamo mordere l’innovazione con saldi e bianchi denti voraci”. Sceglie di parafrasare un verso del poeta Gabriele D’Annunzio, Luciano Floridi, per raccontare quale dev’essere il modo con cui l’Italia deve affrontare il futuro digitale. Filosofo italiano naturalizzato britannico, Floridi è professore ordinario di filosofia ed etica dell'informazione presso l'Oxford Internet Institute dell'Università di Oxford, direttore del Digital Ethics Lab e professore di Sociologia della comunicazione presso l'Università di Bologna.
E proprio per questo che è stato chiamato a far parte del comitato scientifico del Fondo per la Repubblica Digitale, partnership tra il Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, il Ministero dell’economia e delle finanze e l’associazione delle Fondazioni di origine bancaria, che mette a disposizione 350 milioni di euro affinché gli italiani possano accrescere le proprie competenze per accompagnare la transizione digitale del Paese: “Il fondo – spiega Floridi – prova a risolvere un problema enorme, quello delle competenze digitali del nostro Paese ed è focalizzato specialmente sulle fasce più a rischio di impoverimento ed esclusione, ossia le donne e i più giovani. È un ponte tra un passato che abbiamo trascurato, come formazione digitale, e un futuro in cui l’Italia si sta muovendo, anche grazie ai fondi messi a disposizione dell’Europa per la ripresa dopo la pandemia”.
Partiamo da qui, Floridi. Perché forse è proprio la pandemia, con lo smart working e la didattica a distanza, ad averci fatto capire quanto sia necessario il digitale…
Esattamente. Il digitale non è più la ciliegina sulla torta, ma la torta stessa. Ma la pandemia ci ha mostrato anche altro.
Cosa?
Ci ha mostrato che stare indietro sul digitale ci rende tutti vulnerabili. Ci ha mostrato quanto siamo arretrati sul digitale – e quindi vulnerabili – come sistema Paese. E ci ha mostrato anche quanta strada dobbiamo fare per recuperare il tempo perduto.
Da dove si parte? Dalle infrastrutture?
No, credo che parlare di carenze infrastrutturali oggi sia sbagliato. A livello di rete, contando anche il mobile, siamo a livello con l’Europa. Il problema è che non sappiamo usare questa infrastruttura al massimo.
Cosa intende?
Che abbiamo ancora decine di milioni di persone che non sanno ancora fare una ricerca online, o banalmente a usufruire dei servizi messi a disposizione su internet dai privati o dalla pubblica amministrazione. O peggio ancora, che non sanno proteggere i loro dati mentre sono online.
È un po’ un paradosso questo: in Italia molte persone vedono l’innovazione digitale come una minaccia, ma sono inermi di fronte alle minacce reali che la digitalizzazione porta con sé.
È un tema enorme, che dobbiamo nella sua duplice natura.
La prima?
Attiene alla responsabilità individuale di ciascuno di noi: la questione del trattamento dei dati, del furto delle nostre identità digitali è un tema che riguarda come persone. Così come guardiamo il semaforo, dobbiamo stare attenti a cosa clicchiamo. Poi ovviamente c’è anche un tema che riguarda la sicurezza nazionale, ovviamente.
Che è il secondo pezzo di problema…
Noi dobbiamo immaginare di essere sotto la grandine per 24 ore alla settimana, per 365 giorni all’anno. Ed è una grandine di attacchi cyber che provano a bucare il tetto della nostra sicurezza nazionale. Dobbiamo essere consapevoli anche di questo. E dovremmo investirci ancora molte risorse. Ma attenzione, non dobbiamo fare l’errore di resistere all’innovazione per paura
Altrimenti?
Altrimenti siamo fregati. Resistere all’innovazione significa essere lasciati fuori dalla storia. L’Italia, per lunghi tratti della storia, ha saputo gestire l’innovazione al meglio.
Cosa significa per lei gestire l’innovazione?
Gestire l’innovazione vuole dire avere strategie innovative su larga scala, non solo qualche start up o qualche eccellenza che qua e là esplode dal nulla. Io credo che tutto il nostro sistema produttivo, anche quello che crediamo analogico, può abbracciare e cavalcare l’innovazione digitale. Attenzione: non pensando obtorto collo che bisogna fare innovazione digitale. Sa cosa mi ha detto qualche tempo fa l’amministratore delegato di Airbus?
Cosa?
Che ha capito che non produce più aerei, ma banche dati con le ali. Cambiare mentalità vuol dire questo. Ma vuol dire anche essere ancorati alla realtà.
Cosa intende?
Intendo dire che dobbiamo smettere di farci distrarre dall’idea che l’innovazione sarà la fantascienza di quando eravamo bambini, con i robottini di Guerre Stellari e le automobili che si guidano da sole, o che vivremo tutti nella realtà virtuale del metaverso. Serve un approccio coraggioso e di apertura, ma che nello stesso tempo sia concreto e consapevole.
Non è troppo tardi?
Essere in ritardo è la nostra grande opportunità. Noi non dobbiamo più preoccuparci di cose che non servono più, che sono superate, ma possiamo tranquillamente pensare al futuro che si aspetta dietro l’angolo.