L’Italia potrà anche avere (ed ha) tanti problemi, ma conserva intatto un asset importante: il fascino del proprio “Made in Italy”. Lo sa bene Enrico Letta, premier costretto a fare da piazzista nel suo tour in Medio Oriente che dopo gli Emirati Arabi Uniti lo ha portato in Kuwait, tanto che in un’intervista al canale Al Arabiya lo stesso Letta ha ammesso che il viaggio oltre che a rafforzare la cooperazione politica tra l’Italia e i paesi del Golfo Persico aveva il preciso scopo di “illustrare il piano per le privatizzazioni in Italia”, sottolineando come il governo italiano voglia “trarre vantaggio dalle attuali opportunità, ad esempio il fatto che l’Italia ospiterà “Expo 2015” il prossimo anno a Milano, considerando che Dubai ospiterà “Expo 2020” tra 6 anni”. Letta ha anche sottolineato come già Dubai avesse sostenuto la candidatura italiana per ospitare “Expo 2015”, ricevendo a sua volta il sostegno dell’Italia per la candidatura ad ospitare “Expo 2020”, esempio questo di un “chiaro interesse reciproco e di una cooperazione reciprocamente vantaggiosa”.
Il “flirt” tra l’Italia e gli sceicchi arabi nuovamente carichi di petrodollari non è una novità: già nel 2009, nel pieno della violenta crisi economico-finanziaria mondiale originata dal crack della banca d’affari americana Lehman Brothers, la più violenta mai registrata dal 1929 e che ha rischiato di portare al collasso l’economia mondiale, l’Italia ha iniziato a corteggiare apertamente gli investitori medio orientali, coi quali i rapporti erano già stati avviati da alcuni anni. E’ del luglio 2005 l’acquistato una quota di Ferrari (il 5%, poi riacquistato da Fiat nel 2010) da parte di Mubadala Development Company (compagnia finanziaria di Abu Dhabi), che nella primavera dell’anno seguente aveva poi acquistato il 35% di Piaggio Aereo. La consorella Aabar Investments (società d’investimento controllata dalla compagnia petrolifera di Abu Dhabi, International Petroleum Investment Company, Ipic), dal 2010 è tra i soci di controllo di UniCredit, con una quota del 5% poi salita al 6,5%.
L’anno passato, dopo che già le prime trattative erano state avviate dall’ex premier Mario Monti, è stato il fondo sovrano del Qatar (Qatar Holding) a siglare un accordo con Fondo strategico italiano (Fsi, controllato da Cassa Depositi Prestiti) per costituire una joint venture paritetica denominata IQ Made in Italy Venture dotata inizialmente di 300 milioni (destinati a salire a 2 miliardi di euro ), per effettuare investimenti in settori come l’alimentare e la distribuzione alimentare, la moda e il lusso, l’arredamento e design, il turismo, l’intrattenimento e lifestyle. Campi che, come ricordato da Maurizio Tamagnini (amministratore delegato di Fsi), creano occupazione per più del 14% della forza lavoro in Italia, rappresentano quasi l’11% del Prodotto interno lordo e contribuiscono a circa il 42% delle esportazioni.
L’intesa non ha per ora portato a investimenti, ma secondo varie fonti proprio IQ Made in Italy Venture sarebbe tra i più probabili candidati all’acquisizione di una quota di minoranza (si parla del 20%) della casa di moda italiana Versace, il cui valore è stimato attorno agli 850 milioni. In ogni caso lo schema sembra aver convinto, tanto che sempre Letta ha annunciato da Kuwait City che il Fondo sovrano kuwaitiano (Kia) entro marzo firmeranno un accordo in base al quale Kia investirà 500 milioni per ottenere il 20% di un nuovo veicolo finanziario (di cui Fsi deterrà il restante 80%) che investirà “all’interno del perimetro di si tranne nei settori che lo statuto di Kia esclude”.
Facendo due conti questi 500 milioni, sommandosi al miliardo messi a disposizione da Qatar Holding e ad altri 500 milioni a fine 2013 dal fondo sovrano russo Rdif (anche in questo caso per una joint-venture paritetica), portano a 2 miliardi di euro i capitali stranieri che Fsi potrà investire per rilevare marchi e produzioni italiane di qualità. Il che significa, come più volte vi ho raccontato, che l’Italia o quanto meno i suoi marchi, i suoi brevetti e le sue produzioni, hanno ancora un valore rilevante agli occhi degli investitori di tutto il mondo, specialmente nei settori di vertice del “Made in Italy” sopra ricordati.
Che poi questo possa significare un aiuto alla crescita, come è capitato nel caso di Lamborghini (fallita nel 1978 l’azienda modenese venne acquistata dai fratelli Jan-Claude e Patrick Mimran, che la rivendettero a Chrysler nel 1987 che dopo sette anni la cedette all’indonesiana Megatech; infine nel 1998 la crisi finanziaria asiatica spinse l’azienda nelle braccia di Audi, gruppo Volkswagen, che in quell’anno rilevò anche i marchi Bugatti e Bentley), tornata ad assumere 100 nuovi dipendenti lo scorso anno e pronta a concedere il bis quest’anno, o solo l’arricchimento di qualche azionista, solo il tempo potrà dirlo.
Insomma: Enrico Letta non è il primo (anzi: già nel 1986 l’allora premier Bettino Craxi andò a Pechino con un seguito di 500 imprenditori per attrarre investimenti cinesi in Italia, imitato nel 2005 e nel 2007 rispettivamente dall’allora presidente Carlo Azeglio Ciampi e dall’ex premier Romano Prodi con analoghe visite in India con codazzo di 500 imprenditori al seguito) e non sarà certamente l’ultimo capo di stato e di governo italiano che indossa i panni del “piazzista” e prova a trovare all’estero quei soldi e quella volontà (o incoscienza?) per effettuare investimenti che in Italia sono sempre più difficili per le nostre aziende. Il punto semmai è proprio questo.
Posto che pecunia non olet e che, ad esempio, se Ethiad Airways (la compagnia di Abu Dhabi) sarà pronta a investire in Alitalia, sarà sempre una buona notizia prima che veder fallire la compagnia (secondo alcuni economisti anche migliore di un eventuale investimento di Air France o Lufthansha, perché minori sarebbero i “conflitti d’interesse” nella gestione dei flussi di traffico e nell’utilizzo di questo o quell’hub), perché gli imprenditori italiani non possono o non vogliono investirvi? La risposta è perfino scontata ma è bene ricordarla: perché in Italia le imprese sono oberate di tasse e preferiscono fuggire all’estero (come fa Fiat) ogni volta che possono, perchè in Italia il credito alle imprese è ridotto e perché la burocrazia rende più difficile far nascere e crescere aziende in Italia che non, ad esempio, a Londra (dove se volete aprire un’azienda non dovete per forza pagarvi un notaio né iscrivervi ad una camera di commercio e con 200 sterline e una settimana siete solitamente in grado di avviare le vostre prime attività);.
Ma anche perché la cultura imprenditoriale italiana è in larga misura ferma a modelli organizzativi che andavano bene negli anni Settanta-Ottanta, ma già hanno iniziato a perdere colpi negli anni Novanta e perché manca una vera politica industriale, il governo essendo come ogni altro centro di potere impegnato in una infinita e sfibrante lotta per banda in difesa delle residue rendite di questa o quella lobby, corporazione, partito, sindacato o gruppo economico. Continui pure Enrico Letta nella sua meritoria opera di “piazzista” dal Made in Italy, ma eviti se possibile di cadere nella retorica della “crisi finita”, della “luce in fondo al tunnel” e di ogni altro “claim” con cui i politici italiani (e purtroppo spesso anche banchieri e imprenditori) cercano di guadagnare la luce dei riflettori, senza minimamente avviare quelle riforme (amministrative, del credito, della spesa pubblica, del diritto privato) necessarie ben più di una manciata di milioni di euro se si vuole provare a riavviare la crescita del paese.