La Gran Bretagna non pensa “neanche remotamente” a far svolgere un nuovo referendum sull’adesione o meno alla Ue, dopo il risultato favorevole all’uscita del Regno (finora) Unito di giovedì scorso. La precisazione, giunta in mattinata da un portavoce di Downing Street, prima del discorso del premier dimissionario (entro ottobre), David Cameron, fa ballare ancora una volta la rumba ai mercati ed in particolare ai titoli finanziari, tanto a Londra (dove Barclays chiude in calo del 17,35% e Royal Bank of Scotland a -15,10%) quanto a Milano dove Mps crolla del 13,34%, Mediobanca chiude a -12,73% e Intesa Sanpaolo termina in rosso dell’11,49%.
Eppure nel fine settimana proprio il numero uno di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, aveva tentato di rincuorare le truppe, segnalando come la Brexit potrebbe essere una opportunità un momento da cogliere “per diventare leader europei”, in cui l’Italia può aggredire “alcuni dei punti di forza” della Gran Bretagna, posto che prima “vengano sanati alcuni punti politici deboli dell’Europa di oggi”. Secondo Messina la colpa dell’impasse europeo sembrerebbe legato anche ai criteri utilizzati per gestire la crisi e più in generale la politica economica e fiscale europea.
“Il rapporto debito pubblico/Pil se lo sono inventati in Germania perché loro stanno meglio ma i debiti di un paese sono pubblici e privati e, se li consideriamo entrambi, la Germania, l’Italia e la Francia sono i tre paesi leader in Europa”. Non solo: “anche mettendo insieme cose che non stanno insieme, titoli di stato in pancia alla banche italiane e sofferenze nette” secondo Messina “siamo a una frazione di un terzo, un quarto del Pil italiano, ma se andiamo a esplorare i derivati posseduti da banche tedesche e francesi scopriremo che i totali dell’attivo sono un multiplo del Pil dei loro paesi, un multiplo non una frazione”.
Come dire che il rischio complessivo che grava sui sistemi bancari francese e tedesco sarebbe ben più alto di quello che grava sul sistema italiano. Mal comune mezzo gaudio? No di certo perchè la tesi non è nuova, ma i mercati (giustamente) non la ritengono corretta, come non è ritenuta corretta l’idea, circolata in giornata, di un fantomatico “intervento” italiano da 40-45 miliardi di euro che il governo starebbe valutando in favore delle banche ma che ancora non si sarebbe deciso se attuare attraverso un’iniezione di liquidità o la fornitura di garanzie. L’idea sarebbe quella di aiutare gli istituti ad alleggerirsi del fardello di crediti non performanti (Npl), pari a 360 miliardi di euro, di cui oltre 200 miliardi rappresentati da sofferenze lorde.
Il problema è che questo tipo di intervento non si è finora concretizzato, nonostante i “desiderata” più volte espressi dal governo, in quanto costituirebbe un aiuto di stato e dunque sarebbe vietato dalle regole europee. Ora la tentazione è quella di invocare la clausola di circostanze eccezionali derivanti dallo stress sistemico portato dalla Brexit per non incorrere nel divieto agli aiuti di stato, ma è tutto da vedere se la Commissione Ue sarebbe d’accordo dato che altro non sarebbe che la riproposizione dell’idea di una “bad bank” sistemica caldeggiata da alcuni istituti ma bocciata sonoramente da Bruxelles.
Un’idea che non convince i mercati, come detto, perché non si capisce come potrebbe una bad bank pubblica prezzare in modo più “corretto” i valori di crediti deteriorati rispetto ad un mercato che continua a non decollare proprio per la differenza tra le richieste dei potenziali venditori e le offerte dei potenziali acquirenti. In altre parole se gli aiuti venissero effettivamente varati, col beneplacito della Ue, a pagare il conto finale continuerebbero ad essere, con tutta probabilità, non le banche che quei crediti hanno malamente concesso né le aziende che tali crediti hanno malamente utilizzato, bensì i contribuenti tutti, a prescindere dal beneficio per ciascuno.
Per questo stesso motivo le banche meno sofferenti non sono accorse in gioiosa schiera a fare la fila per entrare in uno strumento come il fondo Atlante che, nato per assicurare il buon esito di alcuni aumenti di capitale pericolanti (e puntualmente risoltisi in un flop come quelli di Banca popolare di Vicenza e di Veneto Banca) e contemporaneamente per “far decollare” il mercato degli Npl, ha in realtà visto molte meno sottoscrizioni del necessario anche solo per svolgere in modo ampio la prima missione. Avendo di fatto già esaurito i soldi Atlante dovrà, forse, essere affiancato da un fondo Atlante-bis per cercare di comprare qualche decina di miliardi (nominali) di Npl, salvo non si voglia ricorrere al debito per acquistare altro debito, dando il classico “calcio al barattolo” che serve solo a guadagnare tempo.
Dopo anni di rinvii e di calci al barattolo utilizzare una esogena, per quanto negativa, come scusa per l’ennesima soluzione raffazzonata (ma molto utile a qualche dirigente per mettere in sicurezza la propria poltrona e carriera) al problema del credito che da anni si segnala in Italia sarebbe la più classica “non soluzione” all’italiana. Prepariamoci ai fiumi di editoriali a favore dei “supremi interessi nazionali” e contro questa “Europa matrigna”. In fondo il lascito peggiore della Brexit è proprio questo: ridare fiato a tutti coloro che pensano che il solo modo di risolvere un problema sia nasconderlo sotto il tappeto e lasciare che siano altri a pagarne, in modo differito, il costo. Un modo molto vecchio di comportarsi, il che in fondo non è una sorpresa in un paese sempre più vecchio demograficamente, economicamente e culturalmente.