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Opinioni

Lavoro: servono strumenti che funzionino

La riforma dell’articolo 18 sembra in direttura d’arrivo, ma bene sarebbe non limitarsi a rendere più flessibile (e quindi più efficiente) il mercato del lavoro. Occorre anche tagliare il peso fiscale e sostenere l’innovazione.
A cura di Luca Spoldi
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Mario Monti

Esistono solo nodi che tengono e nodi che si sciolgono. Diceva una nota pubblicità qualche tempo fa: “alla fine i nodi sono solo di due tipi, quelli che tengono e quelli che si sciolgono”. Bene, per gli strumenti economici è la stessa cosa e non ha molto senso continuare a fare il tifo tra contrapposte frazioni (come è purtroppo nell’animo umano e in quello italico in particolare, o non avrebbero mai visto la luce Guelfi e Ghibellini, tifosi di Coppi e di Bartali, supporter laziali o romanisti e così via), occorre semmai cercare di capire cosa funziona, a quali costi, a beneficio di chi e in quali condizioni. E prepararsi a cambiare il meccanismo quando i costi superano i benefici o quando le mutate condizioni “ambientali” rendono il meccanismo obsoleto. Sembra semplice, non è vero? Eppure in materia di lavoro il tema non riesce ad essere affrontato in modo “neutro”. Che il mercato del lavoro italiano sia disfunzionale è talmente palese che non occorre neppure più scriverlo, bastano i dati che ogni mese l’Istat pubblica dal quale emerge puntualmente il numero imponente di coloro che un lavoro non lo trovano (disoccupati, pari a 2,312 milioni a fine gennaio) o peggio neppure lo cercano (inattivi, pari a 14,782 milioni) soprattutto tra i giovani. Che basti ridurre le disfunzioni portate dall’articolo 18 (che ricordiamo tutela solo chi il lavoro già ce l’ha e solo in aziende sopra i 15 dipendenti, irrigidendo per contro la produttività del sistema economico italiano) rendendo il mercato più flessibile di quanto sia ora per recuperare di colpo competitività è assai dubbio. In attesa di vedere a cosa nel concreto la riforma approderà dopo il passaggio parlamentare, sarebbe utile ricordare almeno un paio di punti: primo, che il costo del lavoro è legato alla retribuzione lorda (in Italia come noto più bassa, a parità di lavoro e mansione che nel resto d’Europa), all’assicurazione professionale, ai contributi previdenziali e di Trattamento fine rapporto (Tfr o liquidazione). Ma soprattutto alle componenti vere e proprie del costo del lavoro va aggiunto il famigerato “cuneo fiscale”, che come molti statali hanno appena scoperto dagli statini di questo mese è ulteriormente aumentato (altro che ridursi) per l’entrata in vigore di ulteriori addizionali Irpef su base regionale e che nonostante le promesse di Mario Monti non sembra destinato a ridursi in breve tempo.

L’incertezza non crea maggiore ottimismo né maggiore ripresa. In questa situazione la riforma rischia di rivelarsi un boomerang se la maggiore flessibilità che si punta (giustamente) a introdurre non farà rima con una minore pressione fiscale sui redditi da lavoro e incentivi alle imprese che assumono e/o investono in innovazioni tecnologiche che portino a un aumento della produttività. E’ ora infatti di sfatare il mito, perverso, che vuole l’innovazione e la produttività “nemica” dei posti di lavoro visto che semmai è proprio non aver mai innovato a sufficienza (e aver continuato a considerare i collaboratori dei “costi” e non delle “risorse” su cui investire, ad esempio con un processo di aggiornamento professionale continuo che garantirebbe maggiori possibilità di rientrare rapidamente sul mercato del lavoro a chi fosse licenziato), ma al tempo stesso questo tipo di riforme andavano fatte negli ultimi 20 anni, evitando di allargare il gap competitivo con la Germania (oltre che coi paesi emergenti come Brasile, Russia, India o Cina, coi quali occorrerebbe tuttavia non cercare, inutilmente, di competere sempre e solo sui costi di produzione), e non ora che rischiano di aumentare l’incertezza a breve termine di centinaia di migliaia di lavoratori. Il che dubito assai potrà portare a una maggiore fiducia degli italiani nelle loro prospettive economiche e dunque a una maggiore propensione a consumare (elemento che potrebbe sostenere una ripresa sorretta anche dalla domanda interna e non solo dalle esportazioni). Ancora una volta gli italiani pagano colpe loro e di chi hanno mandato (o lasciato) a governarli, sia in ambito economico sia politico.

Una luce alla fine del tunnel? Se pertanto non desta sorprese il fatto che anche una casa d’investimento solitamente attenta e in grado di “leggere” correttamente il mercato come Equita Sim abbia dichiarato di non attendersi particolari impatti positivi dalla riforma a breve termine, almeno non misurabili in modo diretto sui risultati di conto economico delle maggiori imprese italiane quotate a Piazza Affari, a medio termine gli analisti esprimono una cauta fiducia nel fatto che, se la riforma produrrà gli effetti desiderati, potranno beneficiarne maggiormente quelle aziende che presentano al momento un maggiore costo del lavoro in Italia, chi è esposto all’andamento dello spread sovrano, chi è in grado di soddisfare con le proprie attività italiane una crescente domanda estera e chi è sensibile all’andamento della fiducia dei consumatori che a quel punto, se la ripresa si innescasse, dovrebbe registrarsi (per i curiosi di nomi e marchi le preferenze degli esperti vanno in particolare a Piaggio, Fiat, Ubi Banca, Bpm, Mps, Banco Popolare e Indesit). Di certo l’economia italiana ha il motore in panne da troppo tempo e dopo la recente esplosione del rischio sovrano sul nostro paese, solo in parte rientrato dopo l’avvento del governo Monti e il varo dei primi provvedimenti tampone, vede la produzione industriale languire tuttora sui livelli di circa ottanta trimestri or sono (ossia degli anni 1992-1993). E siccome a breve non si vede nulla di buono neppure a livello europeo (anzi il fatturato e gli ordini provenienti dalla Ue per le aziende italiane a gennaio sono apparsi in calo quasi quanto quelli del mercato domestico) sarebbe il caso di affrontare con maggior coraggio anche la riforma fiscale (semplificando e riducendo le aliquote Irpef, per iniziare) e trovare il modo di sostenere più fattivamente chi investe in innovazione. O la auspicata rivoluzione culturale rischia di rimanere sulla carta e il rilancio dell’economia italiana una chimera, con conseguente drastico impoverimento del paese in modo non dissimile da quanto stanno già brutalmente sperimentando la Grecia e il Portogallo.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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