Lavorare a zero euro, pur di fare esperienza? In Italia l’idea periodicamente riaffiora, tanto più oggi che quasi la metà dei ragazzi in cerca di un lavoro non riesce a trovarlo. Fare volontariato, prestarsi a lavori occasionali senza essere pagati, ma portandosi a casa un’esperienza, nel paese dei tuttologi è un'idea che ha subito scatenato una polemica, poco attenta ai distinguo e all’analisi del ragionamento, che più o meno suona così (nella versione che mi diede quasi 15 anni or sono un noto imprenditore napoletano): se un ragazzo fa una prima esperienza nel mondo del lavoro senza alcuna preparazione, ne esce arricchito e non è quindi il caso che “pretenda” di essere pagato in denaro, perché il suo pagamento avviene già in termini immateriali, appunto col passaggio di una capacità del fare (o “know how” che dir si voglia) che prima non possedeva e che in futuro gli sarà riconosciuta.
Diciamo subito che il ragionamento in astratto sembra stare in piedi, nel concreto però fa acqua da tutte le parti. Anzitutto una semplice considerazione: c’è un motivo se il denaro è diventato da almeno quattromila anni un mezzo di pagamento affermandosi sul baratto (che pure sta riconquistando, in tutte nuove forme, un suo spazio nell’economia moderna) o sull’utilizzo di altri beni come conchiglie, sale o derrate alimentari. Il valore del denaro è infatti universalmente noto e, salvo periodi di iperinflazione o forte deflazione, tende ad essere sufficientemente stabile nel tempo perché nessuna delle due parti corra rischi di perderci nello scambio tra fornitura di lavoro e remunerazione dello stesso.
Che il lavoro vada comunque retribuito (fosse pure attraverso il baratto con “competenze”, la determinazione del cui valore rischia di essere peraltro problematica) è talmente evidente che non si dovrebbe sottolinearlo. E tuttavia in questi anni si è assistito costantemente a una tutela sempre maggiore delle ragioni del capitale (e dei creditori in particolare, vedasi da ultimo il caso della crisi del debito greco) e sempre meno del lavoro, per svariati motivi che vanno da un presunto eccesso di tutela precedente alle mutazioni indotte dalla globalizzazione nei rapporti tra il capitale, perfettamente “flessibile” e il lavoro, che perfettamente flessibile (e parcellizzabile e trasferibile) non è e non può essere, per cui vale la pena di ribadirlo.
Il lavoro, come il capitale, è uno dei due fondamentali fattori produttivi e qualsiasi sia la funzione di produzione entrambi vanno remunerati, possibilmente in modo equo. Se il problema non è di merito (il lavoro va remunerato comunque) ma di metodo (come remunerarlo nel concreto), pretendere di “pagare” interamente un lavoratore con sole “competenze” e altri valori immateriali comporta problemi di non poco conto. Anzitutto non è detto che ogni ragazzo sia in grado di “carpire” le stesse competenze, ma qui qualcuno potrebbe dire: è un modo indiretto di premiare i migliori che saranno in grado di “rubare” meglio il mestiere di altri.
Mi permetto di dubitare dell’equità sociale di questa ipotesi e di preferire l’erogazione di bonus (fossero pure sotto forma di corsi d’aggiornamento o altri servizi e valori non monetari), ma proseguiamo. Le competenze passate al lavoratore non è detto valgano quello che il datore di lavoro pretende valgano per un evidente problema di asimmetria informativa: mentre il datore di lavoro è in grado perfettamente di capire se il lavoro svolto è conforme a quanto richiesto, il lavoratore “ripagato” dalle competenze non è in grado di capire se le stesse gli serviranno in futuro, tanto più a fronte di un mercato del lavoro per definizione incerto e in continuo divenire.
Se comunque si fosse in grado di superare questi primi ostacoli, resterebbe il fatto che un lavoratore, giovane o meno giovane che sia, è una risorsa e che ogni azienda dovrebbe trattarlo come tale, valutandone la capacità e investendo su di esso affinché tali capacità crescano a vantaggio della produttività dell’attività lavorativa messa in opera, di cui l’azienda beneficia. Detto in altri termini un giovane che si trasforma col tempo in un lavoratore esperto apporta valore all’azienda oltre che a se stesso e questo valore andrebbe riconosciuto anche in termini monetari. L’ipotesi di fare lavorare i giovani “gratis” dando loro esperienza in cambio, in sostanza, presenta non pochi problemi concreti e potrebbe essere presa in considerazione solo nel contesto, ad esempio, di uno specifico percorso formativo (stage).
Se ci pensate bene tuttavia l’idea che una persona possa lavorare per “amor di conoscenza” è molto snob e trascura un piccolo ma non insignificante dettaglio: che molti lavorano anche se non soprattutto per vivere. Retribuire i giovani solo con esperienza finirebbe col favorire i figli di famiglie a reddito più elvato e danneggiare quelli di famiglie meno abbienti. Più in generale, prevedere una componente della retribuzione “immateriale” (anche per lavoratori non giovani) è un’idea che non va esclusa a priori, pensare che l’intera retribuzione, per quanto modesto sia il compito affidato, possa essere così costituita è l’ennesimo abbaglio, non dissimile da chi pensa che sostituendo costi fissi con costi variabili, ossia lavoratori dipendenti con agenti di commercio e collaboratori occasionali, sarà possibile ottenere le stesse prestazioni professionali, la stessa attenzione alla qualità di ciò che si va producendo, lo stesso impegno e attaccamento all’azienda per la quale si sta lavorando.
A meno che il discorso di fondo non sia ancora una volta quello per cui le aziende debbono competere solo in base al costo del fattore lavoro, una pericolosa illusione in cui da tempo sono cadute molte (per fortuna non tutte) imprese italiane che la crisi accentuata dalla “cura tedesca” ha finito per rinvigorire ulteriormente. Ebbene signori, tale illusione è suicida per un paese come l’Italia che si è specializzato in produzioni di media qualità e a media specializzazione, lasciando già fin troppo spazio a concorrenti esteri come la Germania nei segmenti alto di gamma di molti settori.
Per un paese come il nostro dove i giovani saranno sempre meno, nonostante l’apporto degli immigrati (cui ciecamente alcune forze politiche continuano a voler fare la guerra per tornaconto elettorale), e pure restano per quasi la metà disoccupati e dove la differenza retributiva tra diplomati e laureati è ormai quasi azzerata, come ha rimarcato giudicandola una pericolosa distorsione anche il governatore di Banca d'Italia, Ignazio Visco, l’unica salvezza a medio termine per riprendersi da una decadenza che in questi anni è andata accelerando di pari passo con la deindustrializzazione del paese e l’impoverimento di molti suoi distretti è data dalla capacità di innovare e di puntare sulla qualità.
Per queste produzioni non conta solo e tanto avere un basso costo del lavoro quanto risorse umane motivate e specializzate, pronte a investire su se stesse. Ben vengano percorsi di apprendimento che alternano periodi di formazione teorico/scolastica a periodi di formazione pratica, ben vengano componenti retributive “immateriali”. Ma “lavorare gratis” tout court significherebbe solo accettare di veder valutato pari a zero il proprio contributo alla produzione, tornando ad una situazione di moderna “servitù della gleba” che non garantirebbe il rilancio del paese e accentuerebbe ancora di più le distanze tra gli “happy few” (sempre più “few”) e i molti lavoratori de-qualificati e del tutto privi di un qualsivoglia potere contrattuale.