La ripresina italiana trova nuove conferme da parte della Commissione Ue come pure dell’Ocse ma si conferma sostanzialmente incapace di affrontare il problema della disoccupazione, destinata a mantenersi a due cifre ancora per il prossimo paio d’anni nonostante la retorica governativa continui a celebrare come successi storici ogni calo di decimale di punto percentuale additandolo alle “miracolose” riforme strutturali che più di un analista giudica per ora aver prodotto risultati alquanto traballanti.
Ma al di là dell’attribuzione di meriti o demeriti nella ripresina-ina-ina in atto, il rischio che corre l’economia italiana è che non si faccia a tempo a celebrare l’inversione di tendenza dopo sei anni di pesante recessione che già arrivino nuovi e impegnativi test da superare. Il primo è atteso prima della fine dell’anno, dato che salvo improvvisi indebolimenti degli indici macroeconomici la Federal Reserve pare ormai intenzionata ad alzare di un primo quarto di punto i tassi ufficiali sul dollaro, tuttora prossimi allo zero assoluto (al momento il tasso sui fondi federali, o Fed Funds Rate, oscilla sullo 0,11%, essendosi mantenuto negli ultimi 12 mesi tra lo 0,03% e lo 0,35%).
Così almeno ritiene probabile il 68% del mercato, dopo che ancora nell’ultimo fine settimana un altro esponente della banca centrale americana, il presidente della Fed di San Francisco, John Williams, ha spiegato che con una situazione di piena occupazione (il tasso di disoccupazione negli Usa è calato al 5%) ed un’inflazione prevista in graduale risalita verso il target del 2% annuo (soprattutto per il venir meno dell’effetto-scalone legato al ribasso dei prezzi del carburante che da circa un anno rispetto all’anno precedente si è “mangiato” un punto percentuale annuo d’inflazione) “è sensato” che il prossimo passo sia quello di una graduale rimozione dello stimolo monetario.
Il discorso in effetti ha molto senso negli Usa e probabilmente avrebbe senso anche nel Nord Europa, dove anzi da tempo il problema è che i tassi prossimi a zero stanno rendendo sempre più difficile per alcuni soggetti come fondi pensione e fondi sovrani remunerare adeguatamente il capitale così da garantire la sostenibilità di futuri flussi di pagamenti, come nel caso del fondo sovrano norvegese gestito da Norges Bank Investment Management che per questo ha deciso che venderà titoli di stato, che rendono poco o nulla, per acquistare proprietà immobiliari il cui rendimento è attorno al 3% annuo.
Peccato che un rialzo dei tassi Usa non possa essere visto come un evento isolato che non causerà alcun genere di riflesso sui tassi in Europa e in Italia (con inevitabili conseguenze anche in termini di oneri di rifinanziamento del debito pubblico e quindi di freno alla ripresa, ceteris paribus), per quanto la Bce vigili attentamente e abbia già fatto capire che, al contrario della Federal Reserve, potrebbe in dicembre ridurre i tassi (quanto meno quelli sui depositi, già negativi) o prorogare gli acquisti di bond sul mercato, di fatto incrementando la massa di liquidità fornita al mercato stesso e in particolare alla banche.
Il risultato è che già stasera il tasso sui Btp a 10 anni è tornato attorno all’1,76%, mentre quello sui Bund decennali oscilla sullo 0,67% e pertanto lo spread (il sovra rendimento che debbono pagare i titoli di stato italiani rispetto a quelli tedeschi per essere collocati sul mercato) è salito all’1,09%. Mercoledì si vedrà se la nuova asta di Bot a 12 mesi (saranno offerti 6 miliardi di euro di titoli) riuscirà a registrare ancora tassi negativi come accaduto a inizio mese con le emissioni di Bot a 6 mesi e di Ctz a 24 mesi o se la “luna di miele” che ha portato gli investitori a pagare il Tesoro italiano pur di poterlo rifinanziare sta già volgendo al termine.
Non è da sottovalutare, poi, il segnale giunto dal Financial stability board (Fsb), gruppo creato dal G20 dopo la crisi mondiale del 2008 per evitare nuovi crack come quello della banca d’affari americana Lehman Brothers, che in un report diffuso oggi ha sottolineato come per evitare ogni rischio in caso di nuove crisi alle banche “sistemiche” mondiali (quelle “troppo grandi per fallire” senza correre il rischio di un effetto a valanga) occorrerebbero, a seconda del tipo di strumenti considerati, dai 457 ai 1.100 miliardi di euro di ulteriori capitali.
L’Fsb ha anche precisato che la cifra consentirebbe alle banche di assorbire perdite pari almeno al 16% dei loro risk-weighted asset entro il 2019, ovvero ad almeno il 18% entro il 2022. Peraltro se si escludessero dal computo le 4 maggiori banche cinesi, l’ammontare di capitali necessari si ridurrebbe significativamente, calando tra i 107 e i 776 miliardi di euro. Questo significa anche, come ha già commentato qualche esperto del settore, che con un fondo anti crisi bancaria dotato di risorse tra i 4 e i 5 mila miliardi di dollari basterebbe a scongiurare il ripetersi, anche nelle ipotesi peggiori di un nuovo caso Lehman.
Può sembrare una cifra paurosa, ed in effetti lo è, ma se pensate che la sola Federal Reserve ha un bilancio con un attivo patrimoniale di oltre 4,48 triliardi di dollari (cui corrisponde altrettanta liquidità iniettata sul mercato) e che la Bce a sua volta a fine ottobre aveva in portafoglio titoli detenuti ai fini della politica monetaria per 695,7 miliardi di euro (pari a quasi 750 miliardi di dollari) e intende almeno raggiungere gli 1,1 triliardi di euro prima di valutare uno stop al suo programma di quantitative easing, si può capire come la decisione di rafforzare e in che misura le banche facendo ricorso a capitali esclusivamente privati o anche (e in che misura) pubblici è unicamente una decisione politica.
Una decisione che verosimilmente verrà legata, almeno in Europa, al varo di ulteriori riforme strutturali si spera, queste sì, in grado di affrontare alla radice il problema di una ripresina-ina-ina ancora incapace di risolvere il problema dell’elevata disoccupazione nei paesi del Sud Europa, Italia compresa.