La ripresa è dietro l’angolo per quelle aziende, europee o persino italiane, che sapranno guadagnarsela? Il sospetto viene, anche se il quadro macro continua a presentare luci ed ombre. Da un lato il mercato del lavoro, in Italia considerato a lungo fin troppo rigido e che la “riforma Fornero” ha cercato di rendere più flessibile con esiti peraltro finora dubbi (come facilmente prevedibile allorché in cui si sono rimossi ostacoli all’espulsione di forza lavoro in un momento di crisi della domanda domestica che rende difficile ipotizzare la creazione di nuovi posti di lavoro, che infatti stanno calando persino nel “nero” nelle regioni del Sud), continua a segnare dati a dir poco scoraggianti, con una disoccupazione “ufficiale” che resta sopra il 12% (3,089 milioni di persone, a cui vanno però sommati altri 14,382 milioni di cittadini “inattivi”, ossia che neppure lo cercano il lavoro), ovvero sopra il 39% tra i 15-24enni in cerca di lavoro.
Dall’altro la fiducia delle imprese nelle prospettive di futura crescita dell’economia, nonostante i problemi che tuttora riguardano il settore creditizio che ricordavo ieri, sembra in recupero persino più che nel resto di Eurolandia, con l’indice Esi (Economic sentiment indicator) cresciuto mediamente di 1,2 punti in Eurolandia in luglio e addirittura di 2,9 punti in Italia, il progresso più marcato tra i Diciassette, ben oltre quanto segnato da Spagna e Francia, dove la fiducia è salita esattamente di 1,2 punti, dalla Germania, che ha visto la fiducia migliorare solo di 0,7 punti e dall’Olanda (sempre più in crisi nonostante la fama di paese “virtuoso”), dove l’indice è addirittura calato di 2 punti. La famosa “luce in fondo al tunnel” continua a intravedersi e questo forse è un bene perché le aziende e le famiglie debbono vivere anche di (auto)illusioni, specialmente nei momenti più difficili e specialmente se non si è culturalmente preparati in campo economico e fiscale come purtroppo è vero per le “italiche genti”.
Cerchiamo per una volta di andare anche oltre i dati macroeconomici (come il recente rapporto Prometeia-San Paolo che pure segnala come nel primo trimestre dell’anno l’Italia abbia recuperato quote di mercato in più della metà de suoi sbocchi commerciali, interrompendo la caduta del fatturato dell’industria manifatturiera), che ci danno sovente un quadro così ampio da non farci cogliere dettagli forse minuti ma certamente importanti per capire i motivi alla base dei trend. Dalle numerose trimestrali pubblicate in questi giorni anche in Europa e in Italia emerge infatti qualche segnale positivo che, non sarà un caso, coglie aziende come la tedesca Hugo Boss (fino al 2007 controllata dal gruppo italiano Marzotto, poi ceduta al fondo Permira) che hanno da tempo intrapreso un cammino verso il rinnovamento di prodotti e servizi per riuscire a intercettare quanta più domanda sui maggiori mercati di tutto il mondo.
Guardando attentamente la relazione diffusa stamane si nota come Hugo Boss nei primi sei mesi dell’anno abbia anzitutto registrato un ulteriore aumento significativo del fatturato in Europa (668 milioni di euro includendo Medio Oriente e Africa, il 2% più del primo semestre 2012 ovvero il 3% se si tiene conto dell’effetto cambio), che va a sommarsi a risultati già particolarmente positivi registrati lo scorso anno. Non solo: parlando in conference call il direttore finanziario Mark Langer ha sottolineato come a livello di gruppo le vendite (+10% in valuta locale in Europa, con la Gran Bretagna davanti a tutti con un robusto +19%) abbiano visto i mercati chiave “della Germania, del Benelux e della Francia crescere ad un tasso ad una singola cifra media percentuale, mentre incrementi a doppia cifra sono stati segnati in Spagna e in Italia”.
Ohibò, ma non era crisi nera in Italia e Spagna? Sappiamo bene che a livello complessivo di paese la crisi perdura tuttora per entrambi i paesi, ma Langer ha ribadito: anche escludendo i contributi dei nuovi negozi (in Spagna si è avuto un saldo netto di 28 nuove aperture, contro le 2 in Italia, per un totale di 53 nuovi negozi in tutta Europa rispetto a fine 2012) “le vendite al dettaglio appaiono stabili in Italia e positive in Spagna”. Tu guarda: Hugo Boss fa come il calabrone che si dice non potrebbe volare ma vi riesce perché non conosce le leggi della fisica? A ben guardare non è così: il calabrone, infatti, non infrange alcuna legge fisica come è stato dimostrato alcuni anni or sono, mentre il gruppo tedesco fa quello che anche altri gruppi (da Lvmh a Kering) fanno, ossia investe nella crescita organica e nelle acquisizioni e si rinnova costantemente, trovando nuovi consumatori anche in momenti in cui tutti o quasi gli altri suoi concorrenti perdono fatturato e accumulano perdite.
Non vorrei dire un’ovvietà, ma potrebbe essere la “chiave di volta” per evitare che le aziende italiane debbano tutte prendere la strada dell’estero, come capitato in quest’ultimo paio d’anni a tanti bei nomi italiani (tra gli ultimi Pomellato Gioielli, rilevato da Kering, Loro Piana, finito sotto il controllo di Lvmh, e le cucine Berloni, il cui controllo è finito ai cinesi di Taiwan del gruppo Hcg)? Varrebbe la pena di provare a rifletterci e prepararsi ad agire di conseguenza, anzichè continuare nell'inutile lagna sull'italianità perduta o ad attendere riforme e politiche industriali che difficilmente l'attuale classe politica italiana sarà in grado di realizzare. Sempre che, ovviamente, non si decida che l'Italia non è più un paese in cui è possibile investire, come ogni tanto torna a denunciare il numero uno del gruppo Fiat, Sergio Marchionne, peraltro.