Ripresa, questa sconosciuta: dopo le variazioni “eccezionalmente” positive di agosto, ordini e fatturato dell’industria italiana correggono al ribasso segnando rispettivamente -6,8% e -4,6% rispetto al mese precedente, nel caso del fatturato come sintesi di un brusco calo sul mercato interno (-5,5%) e di una maggior tenuta di quello estero (-2,8%). Non solo: corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 22 come a settembre 2015), il fatturato totale diminuisce su base tendenziale (ossia annua) dello 0,3%, sintesi di un calo dell’1,3% sul mercato interno ed un incremento dell’ 1,8% su quello estero.
Se non altro rispetto al settembre 2015, gli ordini mostrano ancora un aumento del 2,6%, con le variazioni più rilevanti per la fabbricazione di mezzi di trasporto (+10,6%), mentre la flessione maggiore si osserva nella fabbricazione di prodotti chimici (-3,3%). Come dire che finché Fiat Chrysler Automobiles continuerà a crescere (e ad esportare) il Pil italiano avrà un suo supporto, ma la coperta resta cortissima e la crescita più debole di quanto ci si sarebbe augurato, come conferma l’ultimo rapporto del Centro Studi di Confindustria (Csc).
Il Csc prevede infatti che, dopo la leggera accelerazione (+0,3%) messa a segno dal Pil italiano nel terzo trimestre dell’anno, in questi ultimi tre mesi si registrerà nuovamente un rallentamento della crescita che dovrebbe tornare attorno al +0,1%. Tenuto conto che per l’Istat la variazione acquisita per il 2016 del Pil è di +0,8%, se avesse ragione il Csc l’anno si chiuderebbe con un Pil in crescita dello 0,9% e l’Italia sarebbe dunque destinata, come notano gli esperti di Confindustria, a rimanere il “fanalino di coda” in Europa.
Se da un lato “l’occupazione in rapido aumento e i maggiori salari reali sostengono il reddito delle famiglie italiane”, che tuttavia “rimangono prudenti nella spesa”, nota il Csc, “gli investimenti rispondono in presa diretta agli incentivi fiscali, come suggerisce il balzo in ottobre degli ordini di beni strumentali, e daranno un forte contributo alla crescita nel prossimo biennio”. Tuttavia rimane l’handicap della contrazione del credito alle imprese, tra le quali sale la quota di quelle cui sono negati i prestiti richiesti: “la creditless recovery non può che rimanere lenta e affannosa”.
D’altra parte che le banche siano ormai l’anello debole della cinghia di trasmissione delle politiche monetarie della Bce è stato detto e ripetuto da Mario Draghi più volte e la stessa Bce non può fare altro che pressare per accelerare per quanto possibile la pulizia di bilancio, in vista di un graduale ritorno ad una politica monetaria meno “eccezionale” ossia anzitutto ad un rallentamento degli acquisti di bond sul mercato (quasi tutti gli analisti prevedono che la Bce estenda di 6 mesi il programma di quantitative easing in scadenza a marzo, ma al contempo segua l’esempio dato un paio d’anni fa dal “tapering” della Federal Reseve) prima di una interruzione degli acquisti stessi.
Più in là, non prima del 2018, verranno leggeri ritocchi all’insù dei tassi: con essi e con la progressiva ristrutturazione del sistema bancario europeo verrà anche una maggiore redditività delle banche stesse che potranno tornare a concedere credito alle imprese. Ma quali banche, visto che solo i maggiori istituti tricolori debbono disfarsi di qualcosa come 55 miliardi di Npl (crediti deteriorati) nei prossimi mesi e che per ogni miliardo nominale di Npl cartolarizzato le banche possono sperare di incassarne circa 250-300 milioni perdendone quasi il doppio, con la conseguente apertura di crateri nei bilanci e richiesta di nuove ricapitalizzazioni che non tutti gli azionisti sono in grado o desiderosi di effettuare?
E quali imprese, visto che nel frattempo i concorrenti esteri potranno approfittare di valutazioni in calo per selezionare i marchi e le attività più redditizie tra quelle presenti sul mercato italiano per fare shopping? Un’economia ormai ingessata da un fisco repressivo necessario a sostenere importanti voci di spesa come pensioni e sanità, ma anche bonus malamente architettati che non sono stati in grado di imprimere l’auspicata accelerazione di consumi e produzione, corre costantemente il rischio di essere preda degli interessi economici di altri paesi, dentro e fuori l’Unione europea.