Come previsto la Bce non tocca né i tassi né altre misure di politica monetaria nella riunione odierna del suo board e pertanto i tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la stessa Bce restano invariati rispettivamente allo 0,15%, allo 0,40% e al ‑0,10%, valori decisi a inizio giugno quando Mario Draghi annunciò una serie di misure (in particolare un nuovo piano di finanziamento condizionato a lungo termine per le banche europee) per sconfiggere il rischio deflazione e assicurare liquidità al mercato. Misure che, ha precisato poi in conferenza stampa lo stesso Draghi, sono “un poco complicate” ma dovrebbero risultare “attraenti” per le banche che si prevede possano avanzare richieste fino a mille miliardi di euro.
Un aiuto concreto per quel consolidamento della ripresa europea che ancora non si vede ma che qualche casa d’investimento come il Credit Suisse continua a scommettere avverrà già nei prossimi mesi e poi in modo più consistente (anche per l’Italia, sebbene in misura minore e con ritardo rispetto al resto d’Europa) o solo una serie di parole dette per blandire i mercati, che infatti hanno risposto positivamente con borse europee di nuovo in rialzo, in verità anche grazie a dati macro più robusti del previsto arrivati quasi contemporaneamente dagli Stati Uniti (dove il mese scorso sono stati creati 288.000 nuovi posti di lavoro, rispetto ai 224 mila di maggio, con un tasso sceso dal 6,3% al 6,1%)? Come spesso succede i commenti degli esperti sono per ora tutto meno che univoci.
C’è chi, come Carlo Alberto Carnevale Maffè, economista e docente universitario, tweetta sarcastico: “Una Bce tuttora inadempiente conferma la condanna a morte deflattiva certa del debito italiano. Draghi impartisce l’estrema unzione: Rip”, sottolineando come ancora una volta in tema di “misure non convenzionali”, ossia di quantitative easing (acquisto di cartolarizzazioni di crediti per stimolare la crescita ed evitare il rischio deflazione) l’ex governatore di Banca d’Italia si sia limitato a prendere tempo. Un rimandare al domani quello che si dovrebbe fare oggi che non farà bene all’Italia, visto che con un’inflazione in ulteriore calo rischia di pagare tassi reali sul debito sempre più elevati e veder soffocato ogni minimo accenno di ripresa. Altri commentano: Draghi deve pazientare e puntare tutte le sue carte sull’effetto-annuncio, perché sa che per il quantitative easing c’è bisogno di un via libera politico, dalla Germania, alla faccia della strombazzatra “indipendenza” della Bce.
Lo stesso banchiere centrale sembra mettere le mani avanti ammettendo che “l’efficacia delle politiche monetarie è minore con tassi di interesse modesti”, ma poiché i “rischi per lo scenario macroeconomico europeo restano orientati al ribasso” ribadisce: “il board della Bce è unanime (dunque anche i rappresentanti tedeschi, ndr) nella determinazione ad utilizzare anche misure non convenzionali se fosse necessario”, ossia se l’inflazione anziché risalire dovesse scendere ulteriormente (ad esempio a causa di un euro sempre troppo forte), zavorrando ulteriormente la già debole ripresa del Sud Europa. Misure che però, par di capire, non possono essere utilizzate già ora per un problema di “trasparenza” del mercato delle cartolarizzazioni, che solo da qualche mese sta ripartendo dopo la “gelata” seguita alla crisi del debito sovrano europeo del 2010.
Ma anche perché, in attesa che si concluda l’Asset quality review e gli stress test sulle banche europee, nonché il parallelo processo di ricapitalizzazione degli istituti più a rischio (solo in Italia verrà richiesto al mercato una somma vicino ai 10 miliardi di euro complessivi), non si può escludere che servano fusioni e chiusure di banche. Insomma: la Bce sta facendo quel che può o meglio quel che la politica (tedesca, in primis) gli lascia fare e non è detto riesca a far giungere tanto rapidamente gli auspicati stimoli all’economia reale, ossia alle imprese, né tanto meno che questo si trasformi in una ripresa duratura delle assunzioni parallela ad un incremento di investimenti e consumi, anzi c'è il concreto rischio di ulteriori perdite di posti di lavoro prima di riuscire a ripartire davvero.
Così alla fine la ricetta per la crescita resta più quella suggerita da Credit Suisse ieri, basata su riforme meno “politiche” e più “pratiche” di quelle che finora ha annunciato Matteo Renzi (riforma della giustizia, per assicurarne un funzionamento migliore e in tempi più rapidi, riforma della pubblica amministrazione, per favorire una riduzione degli adempimenti burocratici e una maggiore trasparenza nella gestione della cosa pubblica, più apertura dei mercati per favorire concorrenza e competitività), che non una miracolosa “misura non convenzionale” che possa d’un tratto risolvere tutti i problemi di un’area, l’Europa, in cui le differenze tra stati restano intatte e le difficoltà per banche e imprese si sono solo “parzialmente attenuate” e che, come ricordavano anche gli esperti di Carmignac Gestion, ha accumulato un pesante svantaggio rispetto ad altre aree economiche mondiali. Troppo poco, davvero, per potersi dare una pacca sulle spalle Mister Draghi.