
Chissà cosa avrebbero pensato i militanti no global, a Genova, nel luglio del 2001, se avessero detto loro che 24 anni dopo un presidente americano di estrema destra avrebbe vinto le elezioni promettendo di distruggere la globalizzazione e di riportare a casa le imprese americane che erano andate a produrre altrove alla ricerca di manodopera a basso costo. Mentre la sinistra tutta – o la “non estrema destra”, fate voi – avrebbe alzato le barricate per difendere la globalizzazione e il commercio a dazi zero.
Probabilmente, non ci avrebbero creduto. E forse, tra quegli increduli ragazzi, c’è pure qualche adulto che oggi pensa tutto il male del mondo di Donald Trump. Intendiamoci: ha più di qualche ragione, anche solo rimanendo nel microcosmo dei dazi di Trump. Perché sono l’altra faccia della medaglia dell’imperialismo americano, e non mirano certo a fare del mondo un posto più giusto.
Però due domande facciamocele comunque: perché dolersi se un Paese decide di riportare a casa la sua manifattura, con l’obiettivo – vero o di facciata che sia – di dare lavoro a enormi fasce di sottoproletariato urbano che ne è rimasto privo? Perché stracciarsi le vesti se per una volta un presidente se ne frega – almeno per qualche giorno – degli indici di borsa che crollano e dei titoli di aziende che valgono il PIL di mezzo continente africano che perdono qualche briciola della loro immensa capitalizzazione? Seriamente: davvero siamo diventati così assuefatti al neoliberismo che pensiamo tutto questo sia male a prescindere? O lo è solo perché è stato Trump a proporlo?
È una provocazione? Sì, ma fino a un certo punto. Perché che la sinistra/non destra non si sia accorta che dazi e tariffe potessero essere uno strumento utilizzabile per mitigare anche solo un pochino gli eccessi del neoliberismo e della globalizzazione, e che sia stata la destra per prima ad arrivarci, è qualcosa che dice molto della crisi nerissima di chi in teoria dovrebbe fondare la sua identità politica sulla critica al capitalismo.
Qualche esempio? Qualche esempio: un dazio è la carbon tax, che impone un prezzo maggiorato ai prodotti in ragione della quantità di utilizzo di fonti fossili nella loro produzione e distribuzione. Un altro dazio è la Tobin Tax, che mira a fare un po’ di cassa con la marea delle transazioni finanziarie tra Paese e Paese che spostano enormi masse di ricchezza da un Paese all’altro in un battito di ciglia, condizionandone enormemente le politiche. Un altro dazio possibile è la tassa sulle attività delle big tech in Europa che hanno distrutto interi mercati pur pagando le tasse negli Usa (o alle Cayman, o in qualche paradiso fiscale in giro per il mondo). Un dazio si potrebbe anche prevedere per quei prodotti che arrivano da Paesi in cui il lavoro è schiavitù legalizzata.
In estrema sintesi: la risposta “di sinistra” ai dazi non può e non deve essere l’accettazione acritica della globalizzazione come l’abbiamo conosciuta sinora. Al contrario, questa potrebbe essere l’occasione anche a sinistra per rimettersi in discussione e immaginare un mondo con meno disuguaglianze e una globalizzazione con meno morti, feriti, sfruttati e disastri ambientali.
Certo: oggi come oggi, serve un grande sforzo di fantasia per immaginare una sinistra/non destra/chiamatela come volete che proponga davvero misure simili, come risposta ai dazi di Trump. Eppure, come ci insegnavano i ragazzi di Genova del 2001, un altro mondo è sempre possibile, che la storia non sarebbe finita col trionfo del neoliberismo.
E anche se il mondo non è cambiato come speravano loro, la Storia ci ha comunque raccontato che, anche su questo, qualche ragione ce l'avevano.
