Mercati finanziari resi sempre più nervosi da sondaggi che col passare dei giorni sono sempre più favorevoli all’ipotesi “Brexit” (uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea) e dall’incertezza sulle mosse che nella prossime ore dovrebbero annunciare la Federal Reserve (si prevede un ulteriore slittamento almeno a luglio se non a settembre del previsto rialzo di uno 0,25% dei tassi ufficiali), la Bank of England (che a pochi giorni dal referendum starà ugualmente alla finestra), la Banca centrale svizzera (vista negli ultimi giorni acquistare titoli non in franchi svizzeri per allentare le tensioni rialziste sul cambio) e la Bank of Japan (che potrebbe rafforzare gli stimoli monetari).
Ai ripetuti cali delle borse, che colpiscono in particolare i titoli più sensibili ai tassi come le banche, fa da contraltare una continua corsa al rialzo delle quotazioni dei titoli obbligazionari, a partire da quelli di emittenti percepiti come più “sicuri”. Questo ha portato oggi, per la prima volta nella storia, i Bund decennali tedeschi a vedere il rendimento scendere sotto zero (-0,0064% a fine giornata, dopo che si è toccato un minimo in mattinata di -0,032%). In questo modo la Germania segue la Svizzera e il Giappone i cui titoli da tempo offrono rendimenti negativi ai loro sottoscrittori, coi rispettivi decennali che oggi in chiusura hanno offerto rendimenti pari a -0,491% e a -0,18%, ovviamente nelle rispettive valute.
Perché gli investitori comprano titoli di stato che rendono meno di zero? Non certo perché trovino attraente perdere denaro, quanto perché in cerca di un porto sicuro preferiscono perdere pochi centesimi di euro su base annua piuttosto che rimanere investiti su mercati azionari che stanno accelerando al ribasso e perdono ormai tra uno e due punti al giorno da cinque giorni consecutivi. Del resto ormai quella che sembrava l’ipotesi più irrazionale e pertanto meno probabile, un addio della Gran Bretagna all’Unione europea che richiederà un paio d’anni di negoziati per ridefinire i trattati commerciali tra il Regno unito e l’Europa, col rischio di ulteriori cali della sterlina (già indebolitasi significativamente nell’ultima settimana) e di un deflusso dei capitali, sembra ormai sempre più probabile.
Mentre nessuno sa dire realmente quali saranno i costi finali della Brexit e per quanto tempo peseranno sia sull’economia britannica sia su quelle dei suoi principali partner commerciali intra ed extra Ue, tra cui l’Italia, è evidente che proprio in Germania, cui già fanno già capo circa 840 degli oltre 2.700 miliardi di euro di bond che ormai offrono rendimenti negativi, ci si avvia verso una stagione di tassi negativi applicati ai depositi. I tassi sotto zero, infatti, sono un costo per le banche (secondo alcuni una vera e propria forma di imposizione patrimoniale) che gli istituti sopportano solo nella misura in cui indebitandosi a loro volta, presso la Bce o sul mercato, a tassi negativi sono in grado di trovare impieghi redditizi. Ma più si amplia l’area di bond a tasso sotto zero, tanto meno una banca può fare utili senza correre rischi.
Questo comporterà, non solo in Germania ma in tutta Europa, Italia compresa, da un lato il tentativo di comprimere i costi (applicando tassi negativi o commissioni sui depositi, tagliando il personale, chiudendo le filiali meno redditizie), dall’altro lo spostamento verso impieghi più rischiosi del semplice “parcheggio” in titoli di stato che per il momento favorisce ancora l’Italia e le sue banche nella misura in cui i titoli di stato tricolori con rendimenti sottozero sono poco più di 300 miliardi (su oltre 1.600 miliardi di titoli di stato). Il Btp a 10 anni italiano rende ancora l’1,51% stasera e per chi non vuole investire in azioni è una tentazione sempre più forte. L’Italia dovrebbe sfruttare questa opportunità per accelerare per quanto possibile le riforme sia del suo sistema bancario sia della sua spesa pubblica.
Quest’ultima, in particolare, è stata sostenuta attraverso provvedimenti discutibili e discussi come il “bonus Irpef” (da 80 euro lordi al mese) o l’eliminazione della tassa sulla prima casa che hanno ingessato di una decina di miliardi di euro l’anno il bilancio pubblico, senza che si sapesse più nulla della “spending review”. Occorrerebbe invece capitalizzare il risparmio in conto interessi sul debito per finanziare riduzioni strutturali delle imposte, migliorando al contempo l’efficienza della spesa. In questo modo si otterrebbe un effetto complessivamente pari o superiore a quello che il governo ha provato in questi due anni a ottenere con provvedimenti “a debito” che semplicemente rinviano al futuro la risoluzione dei problemi di fondo, dando allo stesso tempo un segnale ai mercati di voler finalmente trovare una soluzione strutturale ai problemi stessi.
Il risultato sarebbe una minore vulnerabilità alle tensioni dei mercati e, auspicabilmente, una ripresa più sensibile degli investimenti, cosa che a sua volta potrebbe contribuire ad allentare la pressione sulle banche, che ancora registrano un incremento mese dopo mese delle sofferenze dovute ai tempi lunghi di “esplosione controllata” (ma fino a quando?) della crisi del 2008-2009 che a distanza di ormai sette anni ancora non è stata superata pienamente.