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Opinioni

La Merkel continua a dire “nein”

Angela Merkel continua a respingere la mittente le proposte greche sul debito: la Germania non vuole assumersi rischi. Per l’Italia i rischi sono molteplici, anche slegati all’esito della crisi di Grecia…
A cura di Luca Spoldi
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Avevate sperato che il neo ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, riuscisse a convincere i mercati e i governi Ue della bontà delle proposte di Atene (per la verità un po’ nebulose finora, visto che sono sembrate variare almeno tre volte nel giro di tre giorni) per condividere il rischio sul debito ellenico ed allentare la repressione fiscale fin qui voluta dalla “troika” Ue-Bce-Fmi che hanno finito con l’affossare definitivamente l’economia greca dopo il default del 2010? Non abbiatevene a male (oppure sì), ci ha pensato oggi Angela Merkel a smorzare ogni entusiasmo.

Secondo il cancelliere tedesco l’offensiva diplomatica di Varoufakis e del premier Alexis Tsipras sarebbe sostanzialmente fallita. “Non credo che la posizione degli stati membri dell’area dell’euro riguardo la Grecia sia mutata, almeno in termini sostanziali” ha dichiarato la Merkel ai giornalisti al termine di un incontro col premier di Malta, Joseph Muscat. Eppure se le parole hanno un significato precisare “in termini sostanziali” lascia trasparire o la possibilità che almeno una parte delle richieste greche venga effettivamente accolta al termine di negoziati che verosimilmente dureranno sino a luglio, quando la Grecia (che Varoufakis in un’intervista dichiara papale papale essere “già fallita nel 2010” senza che da allora si siano viste neppure le condizioni per materializzare l'auspicata ripresa) ha in calendario un primo rimborso di 3,5 miliardi di euro alla Bce, ossia quella parte di debito che neppure Varoufakis si sogna lontanamente di non rimborsare (il che è logico visto che dalla Bce dipende ormai la liquidità del sistema bancario greco).

Oppure testimoniano l’insofferenza del governo tedesco per un compromesso inevitabile ma che rischia di scontentare la propria base elettorale, già insofferente rispetto alle “aperture” (per minime che possano essere sembrate agli occhi del resto del mondo) alla politica “interventista” della Bce guidata da Mario Draghi. Il nodo irrisolto rimane quello di chi debba assumersi il rischio, ossia fornire la garanzia di agire come prestatore di ultima istanza nel caso qualcosa andasse storto. Su questo punto, semplicemente, Berlino non vuol sentir regione, anche perchè ha sempre raccontato la crisi come se fosse un problema di stati "virtuosi" contrapposti a "porcellini", omettendo che le basi per la crisi odierna sono state poste molti anni addietro e che di tali basi le aziende tedesche si sono avvantaggiate.

Una narrazione poco aderente alla realtà, che chiede ora il conto; il rischio è che se non ci sarà un’assunzione di responsabilità a livello comunitario (e dunque anche tedesco), l’Unione europea di fatto non esisterà più e rimanere nell’euro a quel punto sarà pressoché impossibile (e sicuramente non più a lungo conveniente) non solo per la Grecia, ma anche per paesi come Spagna e Italia che da un cambio fisso con la Germania avrebbero solo da perdere (a breve e, se non si livelleranno le differenze macroeconomiche, culturali e sociali tra i vari paesi, anche a lungo termine) nonostante il vantaggio dei bassi tassi d'interesse sul debito pubblico.

Ciò detto per chiarire che essere pro-unione europea e pro-euro non significa confondere l'una con l'altro (nè gli obiettivi con gli strumenti che ci si da per raggiungerli) è chiaro che il problema italiano in caso di un’uscita dall’euro vuoi del “bel paese” a seguito dell’espandersi di onde sismiche dovute all’eventuale uscita della Grecia, vuoi della Germania nel caso si verifichino le condizioni, di qui al 2018 (come sembrano scommettere Goldman Sachs e Deutsche Bank) per una spaccatura in due dell’area dell’euro tra “virtuosi” paesi del Nord e “porcellini” del Sud è ugualmente legato alla capacità di assumersi il rischio.

Di rischi slegati dall’euro in Italia ce ne sono di diverso genere. C’è un rischio di credito, che deriva da prestiti concessi anni addietro e sempre più a rischio come dimostra la costante crescita delle sofferenze lorde e nette e l’incapacità finora dimostrata di dare vita a una “bad bank” che sani la situazione ex ante e consenta di voltare pagina (sul perché una tale ipotesi resti a dir poco complicata si è più volte espresso Mario Seminerio alla cui lettura vi rimando). C’è un rischio industriale, legato al fatto che l’Italia si è specializzata, nel corso dei decenni, in lavorazioni a media specializzazione, per lo più legate a settori maturi (il che significa maggiore concorrenza potenziale ed effettiva e maggiori necessità di capitali rispetto a concorrenti più specializzati od operanti in settori meno maturi).

C’è ovviamente un rischio politico, legato al fatto che morta la “prima repubblica”, travolta da Tangentopoli negli anni Novanta, non è mai nata, se non negli slogan sui mass media, una “seconda repubblica”, anche a causa della difficoltà di dar vita a una nuova classe dirigente che non fosse legata ai due partiti popolari storici (Dc e Pc) o a una specifica azienda o potentato economico ma avesse a cuore gli interessi del paese intero e dunque di sue specifiche parti. Chi si deve assumere questi rischi, il pubblico o il privato? L’Italia o l’Europa? L’euro o nuove valute nazionali?

A seconda della risposta che si dà a queste domande (e di come in concreto si gestiscano le politiche che ogni scelta comporterebbe) le prospettive per il paese saranno molto diverse nei prossimi decenni. Sullo sfondo resta tuttavia il rischio meno riconosciuto ma forse più importante di tutti, quello demografico. L’Italia è un paese vecchio che sta rapidamente invecchiando ulteriormente. I paesi vecchi difficilmente accettano cambiamenti radicali, difficilmente danno spazio ai giovani, difficilmente valutano positivamente l’emergere di nuovi soggetti economici e sociali.

I paesi vecchi decidono, se decidono, con molta, troppa calma, tra mille tentennamenti e timori; ricordano ciò che sono stati e vorrebbero tornare ad essere ma temono ciò che potrebbero diventare. I paesi vecchi in definitiva sono un posto magari molto bello dove passare le vacanze, se ce le si può permettere, ma dove non vorrei far crescere mio figlio, non so voi. Sarà dunque il caso di iniziare a domandarsi se e come è possibile fare una scelta anche in termini demografici, oltre che creditizi, industriali, politici e culturali, e quali costi (e opportunità) comportino le varie alternative conseguenti a tali scelte.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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