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La lezione di Seat Pagine Gialle: troppa avidità (e debito) fa male

Seat Pagine Gialle ormai vale un millesimo di euro, contro i 7 euro toccati pochi anni or sono. L’ex reginetta di Piazza Affari è stata vittima dell’eccesso di avidità e debito, un’amara lezione non ancora compresa…
A cura di Luca Spoldi
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Greed is good

Sette piccoli euro e poi non ne rimase nessuno: con l’ennesimo crollo delle quotazioni seguito oggi all’annuncio ufficiale della richiesta di adesione alla procedura di concordato preventivo da parte di Seat Pagine Gialle, le quotazioni dell’ex “reginetta” della borsa italiana di fine secolo scorso oscillano tra gli 0,9 e gli 1,1 millesimi di euro. Ossia per incassare un euro dovete consegnare mille titoli all’acquirente, quando un tempo con lo stesso quantitativo potevate incassare 7 mila euro. I guai di Seat Pagine Gialle hanno un nome e un cognome: l’eccessiva avidità tradottasi in un utilizzo smodato del debito usato per rilevare la società. Un debito che ha finito con lo strangolare una delle “galline dalle uova d’oro” di Piazza Affari, assieme a una rivoluzione “disruptive” del settore in cui la società opera, quello delle directories, passato in pochi anni dal cartaceo all’online con conseguente crollo delle tariffe pubblicitarie applicate e rivoluzione del modello di business.

Quanto al debito, la società già lo scorso anno aveva provveduto a tagliarlo da 2,8 a 1,3 miliardi, ma anche così solo nel 2012 erano previsti oneri finanziari pari a 200 milioni di euro, di cui 130 milioni per il solo pagamento degli interessi (già bloccato la scorsa settimana), contro una generazione di flussi di cassa stimata pari a 50 milioni e una liquidità disponibile attorno ai 100 milioni. La società è insomma “in default”, impossibilitata a tener fede agli impegni coi suoi obbligazionisti che poi non sono altro che le banche sue creditrici, prima fra tutte Royal Bank of Scotland (che ha concesso al gruppo 800 milioni di euro di finanziamenti in scadenza nel 2016), tanto meno è in grado, in queste condizioni, di rilanciare le proprie attività.

La crisi finanziaria seguita al collasso di Lehman Brothers ha naturalmente peggiorato un quadro che peraltro era già critico: le quotazioni di Seat, rimastre tra i 3,1 e i 3,8 euro sino al novembre del 2007 e poi attestatesi attorno a 0,75 euro durante l’estate 2008 e calare fino a un minimo di 19 centesimi nel marzo 2009 (prima che il rimbalzo delle borse generasse un effimero rialzo a 40 centesimi, già svanito a fine aprile) e da lì iniziare una lunga planata verso “quota zero”.  Ma la colpa originale risiedeva nella natura stessa delle operazioni con cui la società è più volte passata di mano venendo ogni volta depauperata.

Dopo la privatizzazione del 1996 avvenuta con la vendite del 61% fino ad allora in mano al Tesoro per 1.643 miliardi di vecchie lire, ossia circa 850 milioni di euro, a Ottobi, un pool di investitori composto da Telecom Italia, Bain capital, Banca Commerciale Italiana, De Agostini, Investitori associati, Bc Partners, Cvc, Abn Amro ventures e Sofipa, nel 2000 un Lbo da 13 mila miliardi di lire (circa 6,75 miliardi di euro) è alla base del passaggio da Ottobi a Telecom Italia (che a quel punto fonde Seat con Tin.it). Solo tre anni dopo l’ex monopolista telefonico italiano scorpora nuovamente Tin.it (che diventa Telecom Italia Media) e cede Seat Pagine Gialle a una nuova cordata di fondi (Permira, Cvc, Investitori associati e Bc partners) che l’acquista ancora una volta a debito (nel 2004 viene emesso il bond “Lighthouse”, scadenza aprile 2014, con una cedola dell’8%).

La regola del “tre” non si smentisce e nel 2006 i fondi staccano un maxi-dividendo da 3,5 miliardi, per il quale la società fu costretta a indebitarsi ancora una volta, riducendo in parallelo la propria partecipazione. Tre anni dopo, puntualmente, la società, al cui capezzale era stato chiamato un ex banchiere di punta del gruppo UniCredit, Luca Majocchi (che rassegna le dimissioni), vara un aumento di capitale da 200 milioni di euro, seguito l’anno successivo da due nuovi bond a 7 anni (550 milioni di euro e interessi al 10,5% annuo, più altri 200 milioni, sempre con cedola pari al 10,5%). Ancora un anno e, nel novembre 2011, la società preferisce finire in “default tecnico” sospendendo pro tempore il pagamento delle cedole sui bond per poi ristrutturare il debito.

Il resto è storia recente: mentre l’improvvisa scomparsa dell’amministratore delegato Alberto Cappellini (nel marzo dello scorso anno) aggiunge incertezza sulla capacità di modificare il business model del gruppo, Standard & Poor’s taglia definitivamente il rating (già ampiamente a livello “junk”, cartaccia) da CCC- a D (default, ossia emittente fallito). A fine agosto Ligthouse viene incorporata in Seat Pagine Gialle, il debito convertito in azioni, il capitale sociale elevato da 1,927 a 16,066 miliardi di azioni (le cui quotazioni crollano nella stessa seduta del 67,5% del valore). Per qualche tempo la soluzione sembra reggere e il rating viene persino rialzato (S&P’s lo riporta a B-, Moody’s a Caa1), ma il blocco dei pagamenti sia del bond in scadenza a fine gennaio sia del finanziamento che dovrebbe essere pagato il 6 febbraio e la richiesta di concordato preventivo portano l’azione sempre più vicina a zero mentre S&P's e Moody's azzerano nuovamente il giudizio sul merito di credito. Come dire che se i primi investitori sono riusciti a trarre profitti consistenti, tutti coloro che si sono avvicendati dopo hanno solo avuto di che pentirsene restando chi più chi meno col cerino in mano.

Una lezione amara che tuttavia non sembra ancora compresa, visto che da Wall Street giungono notizie di un “revival” degli Lbo, con una nuova operazione a debito su Dell, destinata a tornare privata attraverso un’offerta da 24,4 miliardi di dollari (il 25% più di quanto il titolo quotasse l’11 gennaio scorso, ultima seduta prima che iniziassero a circolare voci di un Lbo sul titolo). In questo caso proveranno a trasformare il piombo in oro Michael Dell (che l’azienda conosce bene essendone stato il fondatore oltre 30 anni fa ed essendone tuttora il Ceo), Silver Lake, che fornirà 15 miliardi raccolti da un pool di altri fondi di private equity, e Microsoft, che con un paio di miliardi di dollari si assicura un piedino dentro il primo produttore di pc statunitensi. Una persona che se ne dovrebbe intendere, David Rubenstein, co-Ceo di Carlyle Group, ha ricordato giorni fa che “la storia di buyout da 20 o più miliardi di dollari non è costellata di molti successi”. Nel caso dell’Italia anche quella dei buyout da meno di 10 miliardi di euro non pare particolarmente ricca di casi positivi né per gli acquirenti né per i dipendenti delle società coinvolte, tanto che ormai il fatto che possa arrivare un “cavaliere bianco” o che il management sappia estrarre il coniglio dal cilindro e rilanciare le attività sembra non crederlo più nessuno.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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