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Opinioni

La Gran Bretagna privatizza Royal Mail e noi?

Senza troppo dar retta alle polemiche politiche e alle giravolte dei mercati, tipiche dell’estate, Letta e Saccomanni dovrebbero prendere esempio dalla Gran Bretagna e valutare la privatizzazione di Poste Italiane…
A cura di Luca Spoldi
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Siamo ormai in piena clima estivo, sia in campo elettorale sia in ambito economico-finanziario e lo si capisce dalla volatilità dei listini, in particolare di quelli più periferici e meno efficienti come la borsa di Milano, in grado di partire in un modo e chiudere in un altro dopo aver più volte cambiato di segno, il tutto mentre politici, imprenditori e “parti sociali” vociano allegramente, ignorando (o fingendo di ignorare) che a vociare troppo allegramente, specie su titoli quotati di cui si posseggono rilavanti percentuali del capitale e magari si dice di volerne acquistare ulteriormente (come fatto in queste settimane da Fiet e Diego Della Valle a proposito di Rcs MediaGroup) si rischia di incorrere nel reato di aggiottaggio. Un’ipotesi che sarà sicuramente smentita dai fatti, per carità, che però conferma come in Italia le regole anche quando esistono sono sostanzialmente ignorate per primi da coloro che dovrebbero dare l’esempio.

Non fa del resto eccezione lo Stato italiano, che mentre continua a ribadire di voler accelerare il più possibile il rimborso dei crediti pregressi vantati dai fornitori della pubblica amministrazione, di fatto continua a prendere tempo, violando le sue stesse leggi come ricorda l’Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili) che citando circolari della Ragioneria dello stato stimano in 19 miliardi di euro i ritardati pagamenti per i soli lavori pubblici e in 235 giorni (quasi otto mesi) il ritardo medio dei pagamenti. Per evitare di correre dietro al vociare “a vuoto” altrui mi permetto pertanto una piccola digressione “esterofila” che potrebbe suggerire al premier Enrico Letta e al ministro dell’Economia e delle Finanze  Fabrizio Saccomanni un’alternativa alla per molti “inevitabile” (specie se si insisterà a dare il “contentino pre-elettorale” al Pdl su Imu e Iva) manovra d’autunno che potrebbe pesare tra lo 0,5% e l’1% del Pil (ossia tra gli 8 e i 15 miliardi di euro se ha ragione Standard & Poor’s nelle sue stime del Pil italiano 2013).

Prendano esempio, Letta e Saccomanni, dalla Gran Bretagna, che pure non se la passa troppo bene (nonostante non sia nell’euro  e paghi sui propri titoli decennali un rendimento inferiore al 2,4% contro il 4,36% che paga la Repubblica Italiana sui propri Btp a 10 anni): il ministro al Commercio e industria inglese, Vince Cable, ha annunciato ieri che il governo intende collocare sul mercato, attraverso un’Ipo, la quota di maggioranza di Royal Mail Group, ossia del servizio postale pubblico britannico. L’ammontare esatto della quota dipenderà dall’andamento dei mercati e dalla domanda degli investitori, ma l’obiettivo è di “massimizzare il ricavato per i contribuenti”, tenuto anche conto che ai dipendenti del gruppo verranno riservate fino al 10% delle azioni a titolo gratuito, a condizione che vengano detenute per almeno tre anni. L’operazione dovrebbe concretizzarsi entro li prossimi 8-9 mesi, con uno sbarco sul listino della City previsto per il marzo 2014.

Si dirà: le poste britanniche saranno più appetibili di quelle italiane. Mica vero: Royal Mail ha chiuso 5 bilanci in perdita negli ultimi 12 anni a causa della crescente concorrenza dei privati e il piano di privatizzazione suscita una forte ostilità da parte del sindacato Communication Workers Union che ha già preannunciato scioperi. Ciò nonostante il valore presumibile della società dovrebbe essere intorno ai 2,5 miliardi di sterline, ossia poco meno di 2,9-3 miliardi di euro. Poste Italiane, in compenso, ha chiuso il 2012 con un utile netto di poco più di 1 miliardo, a fronte di ricavi per oltre 24 miliardi, realizzati con un organico a dir poco “robusto” (144.628 addetti a fine 2012) e dispone di una rete di quasi 13.700 sportelli che potrebbe essere adeguatamente valorizzata in sede di privatizzazione. In realtà la possibile privatizzazione delle poste tricolori (che già operano da anni in concorrenza con operatori privati) è stata ripetutamente ipotizzata ancora in un recente passato, tanto che si pensava ad uno sbarco in borsa già nel 2005-2006  ma poi non se n’è fatto più nulla.

Più di recente, a fine 2011, si è ipotizzato un valore di Poste Italiane (che negli ormai lontani anni Novanta era stimata, non si sa bene su quali basi, poter valere oltre 300 mila miliardi di “vecchio conio”, ossia quasi 150 miliardi di euro, ripeto peraltro senza che questa stima fosse mai stata dettagliata e motivata con precisione) attorno ai 6-7 miliardi di euro. Pur facendoci un’ulteriore “tara”, perché i mercati sono ballerini, l’Italia è “osservata speciale”, chi disprezza vuol comprare e via di luoghi comuni, il collocamento anche in più tranche come fu per Eni ed Enel della quota di maggioranza potrebbe verosimilmente portare non meno di 3-4 miliardi di euro nelle casse dello stato. Soldi che andrebbero utilizzati per cercare di abbattere il cuneo fiscale sul lavoro e così cercar di far ripartire il Pil dopo un decennio di crescita nulla (come certificato ancora una volta da Standard & Poor’s l’altro ieri, cosa che sembra sfuggita a tutti o quasi).

Privatizzare Poste Italiane, posto che prima si liberalizzi concretamente il settore, si scorporino prima gli eventuali servizi che si ritiene strategico rimangano sotto controllo pubblico e che si individuino gli strumenti per evitare che l’operazione si traduca solo in un massiccio esodo di dipendenti pubblici verso forme di mobilità (o di prepensionamento) che mortificherebbero i lavoratori e finirebbero col pesare nuovamente sui conti dello stato, non servirebbe probabilmente a evitare una “manovrina” d’autunno (mancano i tempi tecnici e la volontà politica), ma costituirebbe, anche agli occhi dei mercati, con auspicabili e positivi impatti in termini di minori interessi da pagare sul debito (per il quale invocare l’ipotesi di un “default volontario” come fanno alcuni sciagurati protagonisti della vita politica italiana è pura follia, visto che è per il 65% posseduto da banche, aziende e famiglie italiane e che una simile pazzia rischierebbe di mandare in default l’intero sistema creditizio nazionale) una prova della volontà del paese di abbandonare un modello economico-sociale ormai superato dalla realtà e di aprirsi a riforme strutturali graduali utili a evitare, rimandando ulteriormente ogni problema, atti di vera “macelleria sociale” che graverebbero sul futuro nostro e dei nostri figli. A buon intenditor poche parole, dicono.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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