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Opinioni

La Germania è un buon modello per l’Italia?

Da molte parti si guarda alla Germania come modello che l’Italia dovrebbe seguire per uscire dalla crisi. Ma in Germania il corporativismo soffoca l’innovazione, come dimostra il caso Uber, e costa assai in termini di Welfare. Possiamo permettercelo?
A cura di Luca Spoldi
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La Germania come modello a cui l’Italia deve ispirarsi? Anche no, grazie: in Germania, solo per riferire una notizia di queste ultime ore, il consociativismo è a tal punto che una associazione di tassisti, la Taxi Deutschland Service Gesellschaft fuer Taxizentralen, ha fatto ricorso contro Uber Technologies (al momento impegnata in altre quattro cause sempre in Germania) perché l’applicazione che consente agli utenti di chiamare e pagare un mezzo di trasporto urbano, visualizzando sullo schermo di uno smartphone la posizione di chi chiede il mezzo e quella delle auto con conducente più vicine all’interessato violerebbe la legge tedesca. Un’obiezione accolta dal Tribunale di Francoforte che ha pertanto intimato a Uber di bloccare il servizio, dato che i conducenti che se ne servono per offrire il proprio servizio potrebbero non avere la necessaria licenza.

Non occorre essere un genio per capire che l’idea di offrire un serviziosu licenza” appartiene al secolo scorso e viola un principio, quello della libera concorrenza, che fatica a trovare concreta applicazione non solo in Germania (ricorsi analoghi, con relativi limiti al servizio offerto da Uber, si erano già registrati anche a Londra, Parigi e Madrid) ma in gran parte del mondo occidentale, dove ai proclami più o meno liberisti o liberali quasi sempre seguono una serie di “eccezioni” e tutele per questa o quella lobby o casta, ogni volta giustificata dall’esigenza più o meno legittima e condivisibile di garantire la qualità e l'accessibilità universale del servizio o di ripagare il costo di avviamento rappresentato dalle licenze stesse (concesse in regime di oligopolio ad un numero estremamente contenuto di soggetti, siano essi tassisti o notai, avvocati o tabaccai e così via).

Ma può permettersi di assomigliare ad un simile modello, con tanti e tali vincoli, un paese come l’Italia che già oggi non riesce a registrare alcuna crescita in primis perché la sua economia è gravata da pesi che, tollerabili in un periodo di espansione economica come quello vissuto nella seconda metà del secolo scorso anche grazie alla ricostruzione post-bellica e ad un diverso quadro demografico, non sono più a lungo tollerabili oggi che di crescita se ne vede sempre meno in tutto il mondo (salvo periodiche riaccelerazioni di singoli paesi o aree economiche), un mondo per di più dove i capitali sono perfettamente mobili, mentre non è e non potrà mai essere perfettamente mobile il lavoro, visto che gli esseri umani hanno qualche difficoltà in più a trasferirsi da un giorno con l’altro da un capo all’altro del pianeta rispetto al denaro? La risposta a mio parere è: no.

Per essere la Germania, che non sarà un caso sta iniziando a registrare un rallentamento economico (sta in buona compagnia del resto: è di oggi la conferma che anche la “felice” Svizzera nel secondo trimestre dell’anno ha visto il Pil arrestare la sua corsa, proprio a causa dei contraccolpi legati alla recessione europea “di ritorno”), occorrerebbe da un lato accettare la flessibilizzazione tedesca, dall’altra garantire gli stessi, elevati, livelli di tutela e welfare. Farlo “all’italiana”, flessibilizzando ossia precarizzando il lavoro, senza introdurre alcun miglioramento sul fronte dei servizi erogati dal welfare rischia di produrre l’ennesima diseguaglianza di cui questo paese è sempre più ricco. Una disuguaglianza che non è figlia “del mercato” ma della distorsione dei meccanismi di mercato a favore di alcuni e a svantaggio di tutti gli altri e che il decreto “sblocca Italia” non affronta minimamente, rischiando di diventare l’ennesima occasione sprecata per fare riforme utili a far davvero ripartire il paese.

Chiariamo il concetto una volta per tutte, viste anche le dichiarazioni molto poco illuminate giunte dai vertici di Confindustria in questi giorni: non è facendo ora, dopo anni di crisi peggiorata da provvedimenti di austerità fiscale “figlia” dell’interpretazione italica della “cura fatale” di matrice tedesca (che non ha mai postulato l’innalzamento a livelli insostenibili dei prelievi fiscali, ma ha comunque accentuato la recessione nata dalla crisi “che non esisteva” e dall’assenza di una qualsivoglia sana gestione della cosa pubblica), sacrifici “importanti” che gli italiani torneranno a crescere e ad avere una prospettiva. Non è sacrificando solo il lavoro (che costa troppo, ma costa troppo perché su di esso grava una fiscalità molto superiore a quella tedesca ed europea in generale) che le imprese torneranno a investire, non è rendendo precario (pardon: “flessibile”) il lavoro che le imprese torneranno ad assumere: in assenza di una ripresa della domanda l’offerta (e quindi gli investimenti e quindi il lavoro) non potrà che ridursi a sua volta o, al massimo, rimanere stabile.

Vogliamo tornare a crescere? Allora facciamo riforme che servano a creare le condizioni per incrementare la domanda, anche innovando e migliorando l’offerta: riduciamo la fiscalità ove possibile, magari a seguito di una vera lotta all’evasione, in questi anni sostanzialmente tollerata da tutti i governi; rendiamo meno complesso e oneroso avviare nuove imprese, semplificando la burocrazia e tagliando enti inutili; favoriamo l’innovazione, defiscalizzandone i relativi costi, così da rilanciare la ricerca che in Italia ha saputo per anni ottenere risultati importanti, troppe volte ceduti all’estero per l’incapacità (finanziaria o industriale) delle nostre imprese di sfruttarli appieno. Ma non importiamo acriticamente modelli che ci rendano ancora meno competitivi, inutilmente rigidi nell’osservazione di precetti e rapporti che non sono stati scritti nella pietra ma decisi politicamente, ulteriormente corporativi quando non siamo in grado di sostenere i costi di tale corporativismo. I nostri giovani (e meno giovani) non hanno bisogno di essere sottopagati per lavorare, hanno bisogno di aziende che investano in loro credendo nelle loro potenzialità o sfruttando la loro esperienza. Anche per riuscire a sfruttare i nuovi strumenti che la tecnologia ci offre per creare nuovi prodotti e servizi, anziché demonizzarli e arroccarsi su sterili (e costose, per gli utenti) posizioni di retroguardia.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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