Porsche ha venduto 113.984 vetture nei primi sei mesi dell’anno, vedendo aumentare il fatturato del 33% a 10,85 miliardi di euro, con un utile operativo di 1,7 miliardi (+21% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno). Ma, anche a causa dello scandalo che ha travolto la sua controllata Volkswagen, al momento in borsa vale meno di 13 miliardi di euro, con un prezzo (42,26 euro l’ultima quotazione stasera) pari a 4,4 volte gli utili per azione segnati negli ultimi dodici mesi e pari a 9,6 euro.
Ferrari secondo quanto riportano i documenti presentati per lo sbarco a New York punta a vendere 9 mila vetture entro il 2019 dalle 7.255 vendute nell’interno 2014 e dopo aver chiuso l’anno passato con un utile operativo di 693 milioni su 2,8 miliardi di euro di fatturato avrebbe registrato nel primo semestre di quest’anno un incremento degli utili dell’8,9% e vorrebbe riuscire a strappare una valutazione di 11 miliardi di dollari (per il 100% del capitale), pari a 12-14 volte gli utili attesi nel 2015.
Bastano questi numeri a spiegare il valore della “leggenda” del Cavallino? Non completamente: per quanto il marchio creato da Enzo Ferrari goda di un indubbio fascino, i mercati sono razionali ed allora vale la pena di sottolineare che mentre Porsche si è posta l’obiettivo (e nei primi sei mesi dell’anno è apparsa in grado di centrarlo) di ottenere un margine di profitto di almeno il 15% contro il 18% del 2013, Ferrari tuttora registra un margine attorno al 25%, come dire che nel settore delle auto sportive di lusso piccolo è decisamente bello e soprattutto redditizio.
Del resto piccoli numeri significa anche poter più agevolmente schivare colpi come la brusca caduta della domanda di auto di lusso sul mercato russo (già da diversi mesi) e di quello cinese (da questa estate), che hanno invece impattato sul bilancio del gruppo tedesco. Chi può sorridere senza troppo stare a pensare se questi numeri siano fino in fondo giustificati da una ratio economica è certamente Piero Ferrari, figlio di Enzo, che otterrà dal collocamento 280 milioni di euro in contante conservando una quota del 10% dell’azienda di famiglia.
Con lo scorporo e redistribuzione agli azionisti di Fiat Chrysler Automobiles, prevista all’inizio dell’anno prossimo, dell’80% di Ferrari che resterà in mano al gruppo italo-americano dopo il debutto del Cavallino sul listino di New York il lungo e proficuo “matrimonio” tra le due aziende italiane sarà formalmente arrivato al termine, essendo a quel punto Ferrari un’azienda fuori dal perimetro di consolidamento del gruppo, ma questo non scioglierà il legame con gli eredi Agnelli, che continueranno ad esercitare il controllo sui diritti di voto.
A questo punto a Sergio Marchionne per rispettare il mandato affidatogli dagli eredi dell’“Avvocato”, ossia la graduale uscita dalla produzione automobilistica di massa, mancherebbe l’ultimo tassello, quello rappresentato dalla fusione di Fiat Chrysler Automobiles con un partner in grado di garantire dimensioni realmente globali ad un gruppo che pur essendo il sesto maggior produttore al mondo e nonostante il piano di ristrutturazione, integrazione industriale e rilancio portato avanti in questi anni dal manager col pullover blu non sembra avere ancora i “numeri” per poter continuare a rimanere autonomo senza troppi problemi negli anni a venire.
L’unico problema è che dopo l’addio di Ferrari, Fca, che attualmente capitalizza 17 miliardi di euro, dovrebbe “ridursi” ad un gruppo valutato soli 8-9 miliardi di euro, contro i 12 miliardi di Peugeot, i quasi 23 miliardi di Renault, gli oltre 57 miliardi di Volkswagen anche dopo lo scandalo emissione, i 74,5 miliardi di Damiler, piuttosto che i 52 miliardi di Ford, i 46,5 miliardi di General Motors, o ancor peggio (per Fca) i 185 miliardi di euro di capitalizzazione di Toyota o i quasi 52 miliardi di Honda e i 39 di Nissan.
Insomma: l’aggregazione che da mesi (inutilmente) Marchionne sta auspicando se si farà non potrà farsi neanche lontanamente alla pari, tanto più se nel frattempo venissero cedute, come è possibile, le attività nel settore della componentistica di Teksid, Magneti Marelli e Comau. Il futuro più probabile è che in mani italiane resti dunque l’eccellenza rappresentata dalla Ferrari e tutto il resto finisca con l’essere venduto, in blocco o più probabilmente a pezzi, al migliore offerente, che sia un grande fondo o un gruppo industriale.
E’ l’inevitabile ammaina bandiera di un’industria, quella automobilistica, che come altre l’Italia del ventunesimo secolo non è stata in grado di mantenere vitale, anche se verrà vissuta con un pizzico d’orgoglio per il confermato amore per le eccellenze del “Made in Italy” che il debutto del Cavallino a New York senza dubbio confermerà ancora una volta.